In queste settimane che precedono le elezioni del Parlamento europeo si fa un gran parlare dei problemi dell’Europa e degli asseriti danni che le politiche imposte da Bruxelles avrebbero causato alle economie nazionali. Molto poco si dice invece dei costi e problemi che la mancata integrazione produce. Il settore dell’energia è un buon esempio di un’Europa che ancora non c’è sotto il profilo strategico, dell’approvvigionamento e delle grandi reti. In vista del semestre di presidenza italiano, sarebbe bene lavorare su un tema di vasta portata come questo. Che peraltro non ha soltanto valenza politica ed economica, ma si rifletterebbe positivamente sui costi delle bollette dei consumatori europei.
Lo spunto per questa analisi lo offre un interessante intervento dell’Amministratore Delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, pubblicato nei giorni scorsi sul Financial Times, ove viene messa in evidenza in modo chiaro l’assenza di coordinamento a livello europeo sulle politiche energetiche e le conseguenze che ne discendono in termini geopolitici e strategici. Il tema è di grande attualità data la crisi dell’Ucraina. La riluttanza di molti paesi dell’Unione a prendere una dura posizione a livello europeo nei confronti della Russia, come gli Stati Uniti avevano sollecitato, si spiega in larga parte con la loro dipendenza energetica (nel complesso circa un terzo del gas dell’Ue proviene dalla Russia e, per alcuni paesi, la quota supera il 50%). Scaroni rileva giustamente che abbiamo nei fatti abdicato al nostro autogoverno (energetico) senza che nessuno a Bruxelles prendesse delle decisioni al riguardo. Anzi, nessuno si ponesse neppure il problema.
Anche dinanzi alle scelte strategiche circa le nuove possibili fonti di approvvigionamento, ciascun paese dell’Ue agisce per proprio conto, senza alcun coordinamento. Un esempio è quanto sta avvenendo per lo shale gas, estratto da giacimenti non convenzionali mediante tecniche che comportano una fratturazione idraulica (fracking), spesso contestate dagli ambientalisti per i possibili rischi d’inquinamento, sismici e d’impatto ambientale. Gli Stati Uniti sono all’avanguardia in questo settore: nell’arco di pochi anni, grazie alle risorse non convenzionali, la produzione americana di gas è cresciuta da 524 miliardi di metri cubi nel 2006 a 681 miliardi di metri cubi nel 2012, dopo essere rimasta sostanzialmente stabile fin dai primi anni Settanta. In tal modo la produzione energetica americana ha superato quella russa e a breve ci sarà il sorpasso anche di quella saudita. Si parla di una vera e propria rivoluzione che sta abbassando il costo dell’energia in maniera significativa, dando alle imprese statunitensi un significativo vantaggio competitivo rispetto a quelle europee e asiatiche. Non solo: per la prima volta gli Usa diventeranno un importante paeseesportatore con quote di mercato crescenti, tanto che Obama ha recentemente messo sul piatto le esportazioni di shale gas per indurre l’Ue ad accelerare la conclusione dell’accordo transatlantico per il commercio e gli investimenti (il TTIP). A fronte di questi cambiamenti epocali, l’Ue finora ha deciso di non decidere. Ovvero ha lasciato le decisioni ai singoli paesi, evitando di imporre una preventiva valutazione d’impatto ambientale e limitandosi a raccomandare di seguire alcuni principi comuni. Quale che sia la decisione, l’importante è che sia uguale per tutti.
Per la verità, benché da molti anni l’Ue si occupasse di temi energetici, nel quadro delle politiche per il completamento del mercato interno o dell’ambiente, è solo con il Trattato di Lisbona del 2007 che è stata introdotta una base giuridica specifica. L’art. 194 del TFUE ne definisce i limiti, disponendo che tale politica debba mirare a (a) garantire il buon funzionamento del mercato dell’energia; (b) garantire la sicurezza dell’approvvigionamento energetico; (c) promuovere l’efficienza energetica; e (d) promuovere l’interconnessione delle reti energetiche. Trattandosi di una competenza concorrente – ovvero condivisa tra Ue e stati membri – può però essere esercitata solo qualora l’azione possa essere più efficace rispetto a quella dei singoli stati.
Il fatto è che, in un settore vitale come quello energetico, l’Ue ha finora svolto un ruolo ridotto, prevalentemente orientato alla tutela dell’ambiente e al completamento del mercato interno. Le priorità di questi ultimi anni, infatti, sono state: promuovere un più ampio ricorso alle fonti rinnovabili, ridurre le emissioni dei gas serra e migliorare l’efficienza energetica. Tra l’altro, le questioni energetiche sono spesso viste con ottiche diametralmente opposte – per non dire conflittuali – da coloro che si occupano di ambiente e industria all’interno della Commissione. Dall’Europa, invece, ci aspetteremmo un’azione più incisiva per mettere tutti i paesi nelle stesse condizioni anche per quanto attiene le fonti di approvvigionamento (sia sul piano strategico sia su quello regolatorio) e per realizzare rapidamente le reti trans-europee energetiche, secondo gli orientamenti definiti in unregolamento dello scorso anno, che oltre a migliorare l’interconnessione, riducendo i costi e diversificando le fonti, possono anche contribuire alla crescita dell’economia.
Un passo avanti in questa direzione arriva dalla recente adozione delle linee guida sugli aiuti di Stato nel settore energetico, che impongono una serie di vincoli alle modalità con le quali le diverse fonti possono essere incentivate e obbligano a seguire il principio della neutralità tecnologica. In altre parole, sperabilmente, è finita l’epoca in cui ciascuno Stato membro nascondeva i propri interessi di politica industriale dietro il paravento dell’ambiente o della sicurezza energetica. Allo stesso modo, la ripresa dell’attenzione per le reti intra-comunitarie e la decisa accelerazione verso la convergenza dei mercati (il c.d. market coupling) nel mercato elettrico sono passi nella giusta direzione.
Questo è uno dei casi in cui la ventata euroscettica può far bene agli ideali europeisti. Se si vuole uscire dalla logica della microregolazione e riportare il dibattito europeo su temi di grande portata, l’energia è una buona occasione. Insomma, parafrasando Georges Clemenceau: la sicurezza energetica è una cosa troppo seria per lasciarla agli Stati.
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro