Nelle campagne elettorali generalmente si finisce per parlare poco di politica e ancor meno di policy. Non può dunque stupirci che sia improvvisamente calato il silenzio sulla questione della vigilanza nel settore bancario e finanziario su cui si è lungamente dibattuto in questi mesi.
Il tema, che ha infiammato il dibattito politico per mesi, è finito poi per degenerare in una polemica personale che poco ha a che fare con le ragioni che hanno ispirato l’istituzione della commissione d’inchiesta. Che alla fine si sia trattato soprattutto di uno strumento di lotta politica, si evidenzia anche dalle proposte, abbastanza inconsistenti, contenute nella relazione conclusiva. Il tema principale – la protezione dei risparmiatori – è rimasto sostanzialmente senza risposte concrete. La relazione di maggioranza ha rilevato l’inefficacia dei controlli da parte di Banca d’Italia e Consob, ma i rimedi suggeriti sembrano un pannicello caldo e rasentano l’ovvietà (più poteri ispettivi a Banca d’Italia e maggiore coordinamento tra gli organi di vigilanza). Intrisi di demagogia e preconcetti appaiono poi taluni suggerimenti delle relazioni di minoranza (abolizione della prescrizione, la creazione di una superprocura per i reati finanziari, ecc.).
La realtà, per quanto si è potuto sapere, è che i controlli erano insufficienti soprattutto perché di tipo formale e non sostanziale e perché non adeguatamente supportati da verifiche sul campo. Le autorità di vigilanza si preoccupavano soprattutto di far sì che i prospetti e la documentazione fornita ai consumatori contenessero un avvertimento sui rischi cui si esponevano. Ma la trasparenza di per sé non è sufficiente a prevenire tali rischi perché una larga parte dei consumatori di prodotti finanziari non è in grado di cogliere le sottili implicazioni delle scelte effettuate e perché spesso è bombardata da troppe informazioni che rendono ancor più complesso comprendere i veri rischi cui si va incontro.
Inoltre, nei drammatici casi – ampiamente riportati dalla stampa – di pensionati che hanno perso i risparmi di una vita ai quali erano stati collocati prodotti finanziari molto rischiosi (obbligazioni subordinate, derivati, titoli di stato di paesi a rischio default, ecc.), il problema è che i promotori e/o i funzionari di banca disattendevano i profili di rischio per far comunque sottoscrivere loro i prodotti raccomandati dalla banca o strumenti finanziari ad alto rischio su cui maturavano commissioni più elevate. Per prevenire questo fenomeno non vi è alternativa che effettuare diffusi e frequenti controlli, soprattutto sui dossier dei soggetti che per caratteristiche oggettive (età, fascia di reddito, titolo di studio, ammontare dell’investimento, tipologia dell’investimento, ecc.) appaiano maggiormente a rischio. Il che richiede risorse, soprattutto in termini di personale dedicato a questo tipo di controlli, e poteri per intervenire sia sul piano amministrativo sia in raccordo con le procure laddove vi siano gli estremi di un reato. La tecnologia, al giorno d’oggi, facilita poi il compito degli organi di vigilanza, rilevando automaticamente le transazioni che presentano indici di anomalia.
Se la diagnosi è corretta, allora potrebbe essere utile seguire l’esempio americano che è da sempre all’avanguardia in questo campo. Dopo lo scoppio della grande crisi nel 2008, Obama volle introdurre, con la legge Dodd-Frank di riforma del sistema finanziario, una nuova agenzia federale a tutela dei consumatori di prodotti e servizi finanziari (Consumer Financial Protection Bureau), con poteri di regolazione, supervisione e sanzionatori. L’agenzia è indipendente ancorché sia stata collocata all’interno della Fed. I suoi compiti principali, tagliati su misura alla luce delle cause di quella crisi, sono di monitorare i contratti di mutuo e l’emissione di carte di credito, assicurare che la disciplina dei contratti sia comprensibile al consumatore medio, evitare l’applicazione di commissioni abusive, ecc. Con l’occasione sono state trasferite alla nuova agenzia le competenze in precedenza spettanti a quattro diverse agenzie governative.
L’idea di creare una authority con il mandato esclusivo di occuparsi della protezione del risparmiatore, attribuendole le competenze che oggi sono suddivise tra Consob, Banca d’Italia e Antitrust è stata già avanzata da Guiso e Zingales in un editoriale pubblicato all’inizio del 2016, subito dopo l’avvio della procedura di risoluzione delle quattro banche locali. Alla luce di quanto si è visto in questi mesi, converrebbe prendere seriamente in considerazione l’idea.
Oggi ciascuna delle authority sopra menzionate persegue altri obiettivi primari. La vigilanza sugli intermediari avviene infatti per finalità: la Consob mira a garantire la trasparenza e la correttezza dei comportamenti, mentre la Banca d’Italia deve assicurare le sana e prudente gestione. Il risultato è che solo indirettamente ci si occupa delle esigenze dei risparmiatori. Certo, negli ultimi anni sono sorti gli uffici reclami presso gli intermediari, sono stati ideati gli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie (l’Arbitro Bancario Finanziario), ed è aumentata l’attenzione verso l’educazione finanziaria e l’associazionismo di categoria. Ma mancano spesso mezzi e persone per assicurare una effettiva attività di vigilanza ed “enforcement”.
In generale, la proliferazione delle autorità indipendenti (indice della incapacità dello Stato di intervenire direttamente regolando il fenomeno) va valutata con attenzione perché, se non si definiscono con estrema chiarezza i confini delle rispettive attività, è suscettibile di creare sovrapposizioni e conflitti. Alla luce, però delle deficienze dimostrate, pare che ci siano i presupposti per ripensare al sistema della vigilanza. Se poi, pur trattandosi di un’agenzia indipendente con poteri autonomi, debba far capo (come è accaduto nel sistema americano) ad uno degli organi già preposti alla vigilanza è questione di lana caprina su cui non conviene interrogarsi oggi. L’importante per il nuovo parlamento è fare. E fare presto.
Alberto Saravalle