Hanno ammazzato il sovranismo, il sovranismo è vivo, canterebbe Francesco De Gregori se dovesse descrivere l’attuale trend in politica economica. La situazione di questo inizio 2021 sembra radicalmente diversa da quella di un paio di anni fa. In America, il presidente populista, Donald Trump, è stato sonoramente sconfitto da un moderato di centrosinistra come Joe Biden. In Europa, la Commissione ha giocato un ruolo da protagonista nella strategia di contrasto al Covid e, col varo di Next Generation EU, ha anche rimesso in carreggiata il processo di integrazione che sembrava irreparabilmente compromesso. In Italia, le due forze anti-sistema per eccellenza – la Lega e il Movimento 5 stelle – si trovano a sostenere un Governo presieduto da un uomo di grande apertura internazionale come Mario Draghi. Eppure, sarebbe ingenuo ritenere archiviata la deriva populista dell’ultimo decennio. Il sovranismo può essere stato sconfitto sul piano politico, ma è ancora trionfante su quello culturale.
Lo vediamo da tanti piccoli indizi che, se messi assieme, fanno una prova. La spia più preoccupante è il cosiddetto nazionalismo vaccinale: il tentativo, cioè, degli Stati di trattenere sul proprio territorio l’intera produzione nazionale di vaccini, impedendo alle imprese di esportarne all’estero. Si tratta di una condotta solo apparentemente razionale: nel lungo termine, è autolesionista, perché scoraggia i produttori dall’insediare nuovi stabilimenti o capacità produttiva nei paesi nei quali temono che i carichi vengano, poi, requisiti. Abbiamo già visto qualcosa di simile all’inizio della pandemia, quando diversi governi (inclusi quelli italiano e tedesco) avevano tentato di trattenere partite di mascherine o altri dispositivi di protezione individuale. Ma la cosa è infinitamente più grave col vaccino, specie se i paesi che flettono i muscoli poi vanno a rilento nella campagna di immunizzazione e si ritrovano con milioni di dosi in frigorifero.
Purtroppo, questo fenomeno è molto diffuso. Il caso più clamoroso è proprio quello degli Usa, dove Biden nega ad AstraZeneca la facoltà di esportare un vaccino che, però, la FDA al momento non ha ancora autorizzato. L’unica eccezione finora è rappresentata da un piccolo quantitativo di circa quattro milioni di dosi indirizzate ai due paesi vicini: Canada e Messico. Ma che gli Stati Uniti stiano a guardare senza muovere un dito le tensioni tra due altri alleati – il Regno Unito e l’Unione europea – dove proprio AstraZeneca fatica a tenere il passo degli ordinativi, la dice lunga sul mondo in cui stiamo vivendo. D’altronde, anche in Europa questi comportamenti “egoistici” sono molto comuni: si pensi, per esempio, alle polemiche sull’export dall’Italia di fiale AstraZeneca destinate al Belgio. Ma anche le iniziative europee per consentire il blocco dell’export, perfino ai danni di imprese che stanno rispettando gli obblighi di consegna, rischiano di politicizzare un problema che già di per sé è molto serio. I produttori fanno fatica, infatti, a fornire vaccini in quantità sufficiente a soddisfare una domanda che, ovviamente, in questa fase è insopprimibile.
Si dirà che il nazionalismo vaccinale non fa testo perché riguarda una questione di vita e di morte, in senso letterale. Ma non è così. Le continue pulsioni sovraniste non emergono solo dalle vicende vaccinali, su cui quanto meno se ne capiscono facilmente le ragioni, ma si estendono all’intero campo della politica economica. Anche tralasciando le questioni con una più marcata valenza geopolitica (cybersecurity e 5G), i conflitti di natura commerciale non mancano. Il protezionismo non accenna a scemare (una delle prime mosse di Biden è stata la riproposizione del Buy American Act) e la sfida agli unicorni statunitensi, persa sul piano dell’innovazione, si ammanta ora del neo sovranismo europeo.
La cartina di tornasole più evidente è quella del panstatalismo che ci affligge. Un recente intervento di Piergaetano Marchetti e Marco Ventoruzzo su L’Economia del Corriere raccontava, per esempio, della costituzione per legge di una società interamente controllata dalla mano pubblica (Italia Trasporto Aereo), destinata ad acquistare il ramo d’azienda di Alitalia , in barba alle regole del mercato e senza limiti temporali. Una delle prime iniziative del Ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, è stata la nazionalizzazione di Corneliani, con l’ingresso di Invitalia nel capitale. Contemporaneamente, la Cassa depositi e prestiti continua ad allargare la propria presenza nell’economia nazionale e, per tutto ciò che non è strettamente controllato dal pubblico, c’è sempre la spada di Damocle del golden power.
Il problema è che questi non sono interventi transitori per impedire il fallimento delle imprese danneggiate dal virus e dai lockdown, né per evitare a colossi stranieri di fare shopping a prezzi da saldo, approfittando dei ribassi nei corsi borsistici. Purtroppo è cambiato il vento e anche chi si dichiara da sempre apertamente anti-sovranista, nei fatti, finisce per avallare delle scelte di politica economica che non possono definirsi in altro modo. Si è fatta strada, infatti, la convinzione che le normali dinamiche di mercato non siano più adeguate alla sfida (e allo spirito) dei tempi. E per rimediare a queste asserite insufficienze, la risposta è sempre la stessa: ci vuole più Stato!
Insomma, il sovranismo forse ha subito una battuta d’arresto sul piano politico, ma non su quello della politica economica dove, anzi, pare essere divenuto il “new normal”. Per dirla in altro modo, pare che questa volta, il feroce conquistatore, rozzo e incolto, abbia prevalso sulla colta ed istruita Grecia.