Negli ultimi giorni abbiamo assistito a una serie di pesanti attacchi nei confronti del governo. Per certi versi potrebbe dirsi che si tratta di “fuoco amico”: come quando l’artiglieria spara per errore alle proprie truppe. Il durissimo editoriale di Scalfari che – solo due mesi dopo aver scritto che alle elezioni europee bisognava votare Renzi – invoca la Troika (Commissione, BCE e Fondo Monetario) e paragona il Presidente del Consiglio a Craxi la dice lunga. Ma anche da altre autorevoli parti sono fioccate severe critiche al governo per la sua asserita incapacità di realizzare le riforme promesse o portare avanti la famigerata spending review e per i cedimenti alle lobby o gruppi d’interesse, minando così alla radice la portata delle manovre annunciate. Quando le critiche sono abbastanza diffuse, qualcosa di vero di solito c’è, ma nel complesso ci sembrano non del tutto giustificate: in parte, sono dovute alle eccessive aspettative generate dalla esuberante comunicazione di Renzi, in parte pare di assistere all’ennesimo episodio di cannibalismo tutto interno alla sinistra, quasi una sorta di “cupio dissolvi“.
Certo, noi per primi al momento del voto di fiducia avevamo scritto che ci aspettavamo fatti e non fuochi d’artificio. Abbiamo perfino detto che viviamo in una nuova forma di governo: la repubblica delle slides. Ma da qui a considerare un nonnulla tutto ciò che il governo ha fatto o avviato in questi mesi la passa lunga. Sarebbe ingeneroso ignorare le riforme solo perché non sufficienti a cambiare verso all’economia, dopo diversi anni di recessione, o perché non ancora finalizzate a distanza di qualche mese dall’insediamento a Palazzo Chigi. Il bonus degli 80 euro non ha dato i frutti sperati in termini di ripresa di consumi, ma si tratta pur sempre della maggiore manovra di stimolo all’economia realizzata attraverso una minore tassazione per un importo che, per i beneficiari, è tutt’altro che insignificante. Indubbiamente l’incertezza sulla sua durata nel tempo non ha giovato e, così, gli italiani hanno finora preferito risparmiare invece che spendere. Il decreto competitività sembra in dirittura d’arrivo e, con qualche scivolone strada facendo, anche quello sulla pubblica amministrazione. Sono state annunciate nei giorni scorsi le linee guida di un provvedimento c.d. sblocca-Italia, mentre a settembre dovrebbero vedere la luce le attese norme sulla giustizia. Sullo sfondo di tutto questo si gioca l’immensa partita delle riforme istituzionali, che è sbagliato considerare irrilevante per l’economia: anzi, per Renzi vincere il braccio di ferro col Parlamento (e col Pd) su Senato e legge elettorale è la precondizione necessaria per poter mettere a posto tutte le altre tessere del puzzle che ha in mente.
Per carità, ciascuna di queste normative, isolatamente presa, ha indubbiamente margini di miglioramento, e ciascuna contiene delle misure che avrebbero meritato maggiore attenzione, ma crediamo che quando tutte saranno adottate il nostro sarà comunque un paese migliore. Anzi, ci sbilanciamo a dire che lo sarà se anche il 50% delle promesse sarà realizzato. Non dimentichiamo che usciamo da anni d’immobilismo, salvo per le dure manovre del governo Monti che hanno inciso quasi integralmente sul lato della maggiore imposizione fiscale. Sembra proprio vero il noto proverbio di matrice anglosassone: damned if you do, damned if you don’t.
Si badi, non stiamo facendo il semplicistico ragionamento di molti che sostengono Renzi perché “non abbiamo un piano B”. È che ci sembra convincente la visione del paese che sottende il suo operato, e il tipo di cambiamento che le accelerate del Premier hanno impresso al paese, nonostante i tanti errori, contraddizioni, manchevolezze, ecc. Il problema, come sempre in Italia, è l’execution: e si tratta di una questione cruciale, legata ai processi decisionali, che non può essere risolta magicamente grazie al semplice arrivo di un governo benintenzionato. Servono fatica, sudore e competenza, ed è qui che il governo, nel tempo, deve misurarsi ed essere misurato. Non abbiamo mai creduto che Renzi potesse camminare sulle acque, ma proprio per questo non possiamo lapidarlo oggi per non averlo fatto.
Il vero rischio è piuttosto che scenda a compromessi con le molte (troppe) categorie interessate pur di portare casa a breve dei risultati. Sarebbe un errore irreparabile che gli farebbe perdere la credibilità e forza propulsiva con le quali si è imposto in pochi mesi al centro dello scenario politico. In altre parole, Renzi faccia il Renzi: che non è certamente arrivato né al vertice del Pd, né a Palazzo Chigi trattando o negoziando, ma parlando direttamente agli elettori e pestando tutti i piedi che trovava sulla sua strada. Ricordiamo che la fine del governo Monti è iniziata proprio quando, dopo le prime riforme in cui aveva annunciato l’abbandono del metodo della concertazione, il Professore ha iniziato a trattare a destra e manca. Certo, occorre ragionevolezza e saper scegliere le battaglie, ma poi deve dimostrare – come i molti leader a cui si ispira (da Clinton a Blair fino a Schröder) – che è pronto ad andare fino in fondo: le minacce, per essere efficaci, devono essere credibili. Altrimenti cadrà nella trappola che gli stanno tendendo coloro che si fingono amici, ma mirano solo a logorarlo. Di questo però sembra essersene reso conto, come testimonia il revirement del governo sui professori in pensione a “quota 96“.
Sarebbe ugualmente sbagliato scaricare Renzi come “vendetta” per il fantomatico “patto del Nazareno”. La realtà, però, è che, piaccia o no, Berlusconi resta una pedina importante della politica italiana, per il semplice fatto che controlla consistenti truppe parlamentari e soprattutto gode di un consenso ancora significativo. Del resto, il rapporto tra Berlusconi e Renzi è stato sotto gli occhi di tutti. E questa è la sola condizione alla quale è possibile aprire una stagione di riforme.
Speriamo che il premier – che da buon fiorentino certamente lo conosce bene – faccia sue le note parole del Boccaccio (è meglio fare e pentere, che starsi e pentersi) e porti avanti il suo lavoro senza troppi compromessi. A giudicarlo sui fatti ci penseranno poi gli italiani.
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro