Il governo ha incassato il voto di fiducia dopo un breve dibattito parlamentare che ha evidenziato la difficoltà, per non dire incapacità, delle minoranze di delineare una futura efficace strategia di opposizione. Non avendo razionalizzato l’esito elettorale, e la successiva convergenza tra Lega e M5s, sembrano indulgere in due tentazioni diametralmente opposte ma ugualmente nefaste: supponenza e fatalismo.
Taluni si comportano come un vecchio cinese che, ritenendosi saggio e disprezzando i propri avversari, si siede sulla riva del fiume attendendo che ne passino i cadaveri, trascinati dalla corrente. È l’atteggiamento tipico di una classe dirigente che ha retto pressoché ininterrottamente le sorti della seconda Repubblica e ora si trova a fare i conti con quelli che considera dei “parvenu” della politica.
Altri, invece, agiscono come un cospirazionista depresso, che si rinchiude nel proprio rifugio antiatomico perché crede che il governo abbia inquinato l’aria e l’acqua e non ci sia più nulla da fare se non maledire il destino cinico e baro.
Queste tentazioni hanno qualcosa in comune: entrambe presuppongono la rinuncia alla politica e, in fondo, un senso di fatalità. Poco importa che questo distacco derivi da arroganza (“non sanno i congiuntivi, cosa vuoi che combinino”) o disperazione (“tutto è perduto, gli sfascisti hanno vinto”).
Poiché in politica, come in fisica, non esiste il vuoto, l’assenza di un’alternativa concreta consentirà al nuovo esecutivo di portare avanti più agevolmente il proprio “contratto di governo“, mettendo a repentaglio i passi avanti compiuti negli ultimi anni futuro del paese.
Benché le polemiche nei giorni cruciali antecedenti la formazione del governo si siano concentrate sui rapporti con l’Europa, sarebbe sbagliato ridurre – o addirittura spingere – il dibattito verso una sorta di referendum sull’Euro: in questo momento non abbiamo bisogno di un ulteriore momento di polarizzazione.
Peraltro, un confronto politico limitato a una fantomatica fuoriuscita dall’Euro sarebbe ancor più pericoloso per il futuro della stessa Unione europea: affrontando tematiche complesse come patto di stabilità, fiscal compact, flessibilità in modo semplicistico si porterebbe solo acqua al mulino degli antieuropeisti per principio. Brexit docet.
Conviene, piuttosto concentrarsi su poche tematiche importanti che connotano il programma del governo e su queste condurre un’opposizione serrata, ma costruttiva con fatti e contenuti alternativi anziché insistere su sterili polemiche sulla pretesa “unfitness to govern” della nuova maggioranza giallo-verde.
Le tre aree da cui ripartire sono quelle che forse hanno meglio caratterizzato l’azione dei governi precedenti (Letta, Renzi e Gentiloni): 1) politica estera ed europea, 2) controllo dei conti e 3) giustizia, diritti civili e, più in generale, stato di diritto.
Il primo tema riguarda il posizionamento geopolitico dell’Italia in Europa e nel mondo. Le partite in corso sono molteplici e ci toccano da vicino: Russia, Iran, Medio Oriente e naturalmente Stati Uniti. I primi atti e le dichiarazioni degli esponenti dell’esecutivo non sono incoraggianti: dai reiterati richiami all’amicizia con la Russia (a dispetto dell’ostentata – più a parole che nei fatti, temiamo – fedeltà all’Alleanza atlantica) fino alle immediate congratulazioni incassate da Orban.
Significativo è anche il dibattito sulla revisione del Patto di Dublino. L’Italia ha stretto un’alleanza tattica con Paesi che hanno interessi diversi tra di loro ma, soprattutto, contrapposti ai nostri. Il ministro Salvini intendeva far saltare Dublino per ottenere maggiore supporto alle proprie posizioni, ma i suoi compagni di strada si trovano dall’altra parte della barricata e ritengono semmai che la gestione dei migranti debba gravare interamente sulle spalle di quanti li accolgono.
A fine mese poi si discuterà di riforma dell’Eurozona: l’Italia potrebbe essere un elemento determinante per risolvere in modo a noi più favorevole le partite aperte che vedono ancora molte differenze tra la posizione di Macron (più condivisione dei rischi) e quella di Merkel (più disciplina fiscale). Il rischio è che Roma interpreti una parte che, in Europa, finirà per marginalizzarci, rendendo le nostre posizioni tanto meno incisive quanto più saranno urlate e radicalizzate.
Il secondo aspetto riguarda la politica di bilancio. Le misure annunciate nel programma e ribadite, sebbene con maggiori cautele, da Conte in Parlamento determineranno maggiori spese o minori entrate per 109-126 miliardi di euro, a fronte di coperture individuate per poche centinaia di milioni.
Sappiamo benissimo che in questi termini si tratta di un libro dei sogni, ma il nervosismo dei mercati si spiega anche con l’incertezza su quanto l’Italia si allontanerà dal “sentiero stretto” di Padoan. Le ripetute dichiarazioni di ministri e leader politici, e dello stesso presidente del Consiglio, sull’intenzione di fare più deficit non servono a gettare acqua sul fuoco.
Non è realistica la prospettiva di un default o addirittura di un’uscita dall’Euro, ma la percezione di un maggiore rischio Italia si tradurrà nella richiesta di rendimenti più elevati sul debito pubblico, proprio nella fase in cui il QE è prossimo a esaurirsi e il mandato di Draghi alla Bce è in scadenza.
Tutto ciò metterà sotto pressione il nostro bilancio pubblico, riducendo ulteriormente lo spazio fiscale e scoraggiando gli investimenti esteri, rendendo dunque ancora più asfittica la nostra crescita e meno credibili le promesse di tagli delle imposte.
Infine, molte riforme annunciate nel “contratto” (il contrasto alle delocalizzazioni, l’incremento della presenza pubblica nell’economia, e in generale un diffuso giustizialismo) lasciano intendere che l’Italia potrebbe diventare un paese in cui il ruolo dello Stato diviene più pervasivo e ancora meno attrattivo per le imprese.
Per non dire dei timori che alle parole della campagna elettorale seguano i fatti e ci si avvii in un percorso di democrazia illiberale, dove le tutele dello stato di diritto sono più deboli. La scarsa crescita del nostro paese dipende da numerosi ostacoli agli investimenti e all’innovazione, molti dei quali dipendono dalla scarsa efficienza del settore pubblico e, in particolare, della giustizia e del rispetto della rule of law.
Interventi che abbiano come probabile effetto l’allungamento dei tempi processuali, l’ulteriore irrigidimento del settore pubblico, l’erosione dello Stato di diritto o anche soltanto una minore certezza del diritto rischiano di avere serie ripercussioni sulle attività economiche.
Queste sono le principali partite aperte. Ritirarsi nell’antipolitica sarebbe doppiamente sbagliato: perché finirebbe per lasciare il campo libero ai più rischiosi propositi della maggioranza, rinunciando a collaborare costruttivamente a migliorarne l’operato; e perché comunque offrirebbe l’immagine di un paese inevitabilmente avvitato su se stesso.
Come nel bel film di Troisi, non ripartiamo da zero ma, rivendicando i risultati conseguiti, ricominciamo da tre.
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro