Abbiamo ancora un’idea d’Europa? Il paradosso, che vivremo pienamente alle prossime elezioni europee, sarà che gli unici a parlare del futuro dell’Unione e della moneta unica saranno gli scettici. Cioè quelli che vedono (non sempre a torto) nella Commissione una burocratica macchina da guerra e nell’euro (in questo caso perlopiù a torto) una camicia di forza per le nostre imprese.
Le forze anti-Europa e anti-euro, che nel nostro paese si possono grossolanamente identificare in un vasto schieramento che va dalla Lega al Movimento 5 stelle e dalla sinistra massimalista alla destra populista, agiteranno di fronte agli elettori il drappo rosso indicando nell’Unione un capro espiatorio: le cose vanno male, diranno, per colpa dei burocrati di Bruxelles e dei funzionari di Francoforte, dei tedeschi cattivi e degli gnomi dell’Europa delle banche.
Coloro che, invece, avrebbero qualche interesse a difendere il tanto di buono che ci viene dalla partecipazione all’integrazione europea, senza per questo negarne i molti difetti di progettazione, finiranno quasi per vergognarsene, riducendo la campagna elettorale a un vasto dibattito su questioni nazionali. Parleranno del governo Letta, della legge di stabilità e dell’Imu, mentre gli altri spareranno bordate contro la graduale erosione della sovranità nazionale nel nome di un’impossibile e dannosa revanche isolazionista e protezionista.
Come uscirne? A nostro avviso l’Europa può sopravvivere solo se riuscirà a riprendere la dimensione del “sogno”: cioè a coniugare i passi concreti, inclusi quelli spiacevoli o duri nel breve termine, con una visione di lungo periodo. Nel passato, l’unificazione del Vecchio Continente ha saputo mobilitare una forte adesione perché ha potuto identificarsi con dei cambiamenti significativi, impensabili perfino, che gradualmente hanno preso corpo.
In modi molto diversi, l’Erasmus, Schengen e l’euro hanno cambiato profondamente non solo la nostra vita e il nostro modo di comportarci, ma la percezione stessa dello “spazio” europeo. In un tempo relativamente limitato siamo passati dall’obbligo di mostrare il passaporto alla frontiera alla possibilità di spostarci, lavorare e avviare attività imprenditoriali quasi senza ostacoli. L’Europa oggi, nel senso più positivo del termine, incarna davvero le sue quattro libertà fondamentali – la libera circolazione di persone, beni, capitali e servizi – in un modo tale che tendiamo ormai a darle per scontate. Paradossalmente, proprio il successo della spinta verso l’integrazione è la causa delle difficoltà che abbiamo oggi: non abbiamo più memoria concreta di cos’era l’Europa nei decenni passati e quindi fatichiamo a capire quale se sia, o addirittura se ci sia, il risvolto positivo dei mille regolamenti che ci piovono ogni giorno sulla testa dai cieli di Bruxelles e Strasburgo.
Rilanciare l’Europa, allora, vuol dire riscoprire l’Europa come orizzonte di lungo periodo e quindi tornare a discutere d’Europa. In un certo senso, come ha detto Carlo Altomonte, gli scettici stanno facendo un favore all’Unione, perché ci costringono a parlare del futuro e per la prima volta porteranno nel Parlamento europeo che verrà eletto in primavera un dibattito davvero aperto. Un dibattito incentrato non tanto sulla scappatoia facile ma drammatica dell’abbandono, bensì sulla contraddizione tra le due visioni d’Europa che non riescono più a convivere: quella tedesca del rigore e dei parametri, e quella mediterranea dell’Ue come volano d’investimento.
La stretta osservanza delle regole, che Berlino ha brandito soprattutto durante la crisi contro i paesi a rischio di sforamento del 3%, si è ritorta contro la Germania, oggi messa sul banco degli imputati per l’eccessivo surplus commerciale. Ed è giusto che tutti gli Stati membri pretendano la stessa aderenza alle norme che viene loro richiesta. Tuttavia, questo non può diventare l’alibi per nessuno: vuoi perché l’effettiva portata della questione, come ha dettoFrancesco Daveri, è relativamente limitata, essendo gran parte del surplus tedesco verso paesi extraeuropei; vuoi perché la baldanza degli altri, Italia inclusa, si è immediatamente spenta di fronte all’ennesima figuraccia, con la non-imprevedibile bacchettata alla nostra legge di stabilità.
Queste due visioni possono e devono coniugarsi: il rigore è necessario a garantire la convivenza; ma contemporaneamente deve essere messo al servizio di una prospettiva più ampia. Questo non implica automaticamente forme di integrazione politica, peraltro impossibili nel breve e non necessariamente desiderabili. Né equivale a invocare glieurobond come manna dal cielo per tornare al keynesismo dei tempi passati. Significa, piuttosto, riconoscere che, tra i tanti errori del passato, c’è stato un impiego spesso perverso del budget europeo, che è stato utilizzato essenzialmente come cassa di compensazione per i presunti sacrifici che venivano richiesti ai governi sotto forma di cessioni di sovranità (la Politica agricola comune ne è l’esempio più clamoroso). Il bilancio dell’Ue dovrebbe, invece, diventare vero fattore d’integrazione: e in questo gli Stati membri del Sud possono avere qualcosa da dire.
Integrare l’Europa vuol dire realizzare soprattutto infrastrutture – strade, ferrovie, gasdotti, linee elettriche e reti digitali ecc. Ma queste infrastrutture – eccoci finalmente alla dimensione ideale – non hanno senso se non sono un tassello in una strategia complessiva di cooperazione più profonda volta a realizzare pienamente le libertà fondamentali. In altri termini, le infrastrutture transfrontaliere, affiancate a una nuova ondata di liberalizzazioni (come da tempo sta chiedendo il Regno Unito) sono lo strumento indispensabile per aprire ancor più i mercati e contrastare le strategie di protezione dei campioni nazionali. Unire l’Europa nei mercati e nella concorrenza – cioè negli investimenti e nel miglioramento della qualità dei servizi per tutti gli europei – è il tipo di prospettiva che finora è mancato e che può contribuire ad avvicinare le istituzioni ai cittadini europei.
Se non sapremo fare autocritica, non potremo rilanciare il sogno europeo; e senza un futuro capace di entusiasmare, anche il presente rischia di essere messo a repentaglio. L’Europa ha prodotto molti benefici per individui e imprese: rendersene conto solo nel momento in cui li si perde è un rischio che non possiamo permetterci il lusso di correre.
Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle