Il vostro libro, “Molte riforme per nulla”, parla delle riforme fatte negli ultimi trent’anni, dei loro pregi e difetti. Vengono in particolare scelti alcuni temi come pensioni, fisco, politica industriale ecc. Quali sono gli elementi che accomunano queste riforme nei campi più diversi?
Alberto Saravalle: Queste riforme strutturali toccano settori molti diversi tra loro, ma hanno un comune denominatore: sono nel complesso necessarie per cambiare effettivamente il paese avviandolo su un percorso virtuoso di crescita. È un tema di cui si è molto parlato, non solo in Italia, negli ultimi trent’anni. Le economie europee erano ingessate e avevano bisogno di essere rivitalizzate per tenere il passo di un mondo in via di rapida trasformazione, sulla spinta della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica. Tutti i paesi europei dovevano affrontare gli stessi problemi: l’invecchiamento della popolazione, la sostenibilità del welfare, la domanda di maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, il cambiamento nel ruolo (e la digitalizzazione) della pubblica amministrazione. La differenza è tra chi ha saputo approfittare delle condizioni di mercato favorevoli per realizzare quelle riforme, soprattutto a partire dalla metà degli anni ’90 (con l’ingresso nell’euro), e chi invece non ci è riuscito o ha dovuto farle troppo tardi, quando ormai il grano in cascina era stato consumato, pagando un prezzo molto più elevato, sul piano sociale oltre che economico.
Carlo Stagnaro: L’Italia più degli altri paesi europei ha vissuto una fase di stagnazione economica e della produttività e quindi, più di loro, aveva (e tuttora ha) un’esigenza sostanzialedi mettere in atto quelle riforme strutturali che sole possono consentire la modernizzazione della nostra economia e la ripresa della crescita. Non si tratta solo di formale compliance con le regole europee.
Alberto Saravalle: Una chiosa. Mentre molti dei problemi che affrontiamo nel nostro libro sono abbastanza diffusi anche all’estero (lavoro, pensioni, fisco, ecc.), due riforme sono importanti in particolare nel nostro paese: la giustizia civile e la pubblica amministrazione. L’insostenibile durata dei processi e l’imprevedibilità della giustizia civile sono un forte ostacolo agli investimenti. E la bassa qualità della nostra pubblica amministrazione (farraginosa, poco digitale, autoreferenziale) è comunemente ritenuta una delle concause del declino italiano.
Quindi, nel caso dell’Italia, il periodo incriminato sono i primi anni dell’euro con la germanizzazione dei tassi di interesse e la grande disponibilità di risorse finanziarie?
Carlo Stagnaro: Dipende da cosa si intende per periodo incriminato. Il nostro declino, in realtà, è iniziato in una fase precedente, cioè la seconda metà degli anni ‘70 e gli anni ‘80, per culminare con la crisi di Tangentopoli. Ma il vero periodo incriminato, a mio avviso, comincia nel ’92, quando si erano create tutte le condizioni favorevoli per realizzare finalmente le fatidiche riforme e le abbiamo sprecate. Mi riferisco, in particolare, al periodo successivo all’adesione all’euro, quando si poteva beneficiare del cosiddetto dividendo dell’euro (la significativa riduzione dei tassi di interesse che si andavano allineando a quelli dei titoli del tesoro tedesco). Ma anche oggi, col PNRR, abbiamo un’opportunità forse irripetibile. Naturalmente, ci sono state anche fasi più difficili, in cui la realizzazione delle riforme poteva avvenire solo con costi sociali elevati: penso alla gestione del presidente Monti post 2011 quando l’Italia era letteralmente a un passo dal fallimento.
Alberto Saravalle: Dalla firma del Trattato di Maastricht (1992) all’entrata nella moneta unica abbiamo vissuto un periodo molto positivo in termini di riformismo. Il governo Ciampi e il primo governo Prodi hanno saputo realizzare delle riforme coraggiose che ci hanno consentito l’ingresso nell’eurozona. Poi però – e questo è uno dei nostri problemi ricorrenti – una volta entrati nell’euro, all’inizio del nuovo millennio, è venuto meno il cosiddetto “vincolo esterno” ed è ricominciata la politica di spesa dissennata. Nell’arco di pochi anni si sono così fatti molti passi indietro in campi delicati come quelli del lavoro e delle pensioni.
Vediamo che le disuguaglianze sono aumentate negli ultimi quarant’anni anche in Italia: come pensate che sia necessario intervenire in questo ambito, considerando anche la questione della crisi climatica? Come conciliare equità sociale e tutela ambientale?
Alberto Saravalle: Credo che i problemi delle diseguaglianze debbano essere affrontati attraverso un forte riformismo, perché la stagnazione è immobilismo, è conservazione e sostanzialmente protegge chi ha, chi è già dentro il sistema. Se pensiamo, per esempio, al mondo del lavoro, il vero problema è che finora abbiamo sempre tutelato gli anziani, coloro che hanno un lavoro a tempo indeterminato, quasi mai coloro che invece devono ancora entrare nel mondo del lavoro o che hanno un lavoro discontinuo. La concorrenza è un altro esempio: noi proteggiamo il taxista che ha già la licenza o l’incumbent che ha, da decenni, la concessione balneare, non chi cerca un lavoro utilizzando la propria vettura come conducente occasionale per Uber o il nuovo investitore che potrebbe creare molti nuovi posti di lavoro ottenendo una concessione. La mia risposta, non ideologica, è che le diseguaglianze si superano, almeno in parte, ricreando l’ascensore sociale; in altri termini, occorre aiutare chi sta fuori dal sistema. Le riforme servono a questo.
Carlo Stagnaro: Tenderei a tener distinti il tema delle disuguaglianze e quello della crisi climatica. Ovviamente si sovrappongono, ma hanno cause, effetti e diagnosi diverse. Credo che nel dibattito italiano sulle disuguaglianze si commetta spesso un profondo errore. Si riprendono i termini del dibattito tipico del mondo anglosassone, cercando di trapiantarli nel nostro paese. Ma la disuguaglianza in un paese come gli Stati Uniti, dove c’è una forte crescita del reddito e in cui la velocità con cui cresce il reddito dei ricchi è molto più alta di quella con cui cresce quello dei poveri, è una cosa molto diversa da ciò che accade nel nostro paese. Da noi, infatti, il reddito dei ricchi cresce relativamente poco e quello dei poveri e del ceto medio non cresce o addirittura si riduce. Sono proprio due mondi diversi. È vero che in entrambi i casi siamo in presenza di forti disuguaglianze, ma le loro cause ed effetti – come dicevo – sono molto diversi. In Italia il problema non nasce dal fatto che i ricchi si arricchiscono sempre di più. Noi non abbiamo una lista di miliardari che ogni anno si allunga. Il problema della disuguaglianza, come diceva Alberto, nasce dalla simultanea presenza di un’economia stagnante e di un ascensore sociale che non funziona o che garantisce poca mobilità sociale. Da questo punto di vista, credo anch’ io che sia molto importante – in termini di riforme – promuovere la concorrenza che non serve solo per la crescita, ma anche e soprattutto per dare opportunità a chi non ha ereditato un patrimonio dagli antenati.
Per affrontare efficacemente il problema delle disuguaglianze occorre poi ripensare al disegno del welfare che troppo spesso crea le cosiddette trappole della povertà nel nostro paese o dà luogo a forme di redistribuzione perversa. C’è, infine, un’altra causa alla base delle crescenti diseguaglianze: la scuola. La più efficace risposta ai problemi posti dalle disuguaglianze e dall’assenza di mobilità sociale (problemi distinti, ma con molto in comune), è una scuola che formi capitale umano e dia opportunità a chi non ha avuto la fortuna di nascere in una famiglia benestante e colta. Far funzionare la scuola e l’università – e la scuola in modo particolare – è un pilastro di una strategia razionale per contrastare le disuguaglianze nel senso “cattivo” del termine. C’è infatti anche una disuguaglianza “buona”, che si concretizza quando qualcuno ha del genio imprenditoriale e crea valore per sé e per gli altri, migliorando la vita dei consumatori e anche giustamente arricchendosi. È un meccanismo attraverso cui la società premia e incentiva la creazione di valore per tutti. Ma non è certamente questo il problema dell’Italia.
Per quanto riguarda la crisi climatica e il suo rapporto con le disuguaglianze, è evidente che l’Italia, l’Europa e il mondo devono arrivare alla neutralità climatica entro il 2050, come stabilito a Parigi. Ma c’è anche un aspetto legato al modo con cui pensiamo di arrivare a questo risultato. Un conto è un approccio (oggi maggioritario tra gli economisti) volto ad applicare in maniera puntuale il principio “chi inquina paga”, sapendo che ciò potrebbe avere effetti regressivi da compensare per evitare che siano le fasce deboli a pagare gran parte del prezzo della transizione ecologica. Questa compensazione si può realizzare in mille modi. Quello dal mio punto di vista più razionale è utilizzare interamente il gettito della tassazione ambientale, o di forme analoghe di pricing delle emissioni, a favore delle fasce più bisognose, quindi in parte per il welfare e in parte per la riduzione delle imposte per i redditi medio-bassi. L’ approccio opposto è quello di dire “politica ambientale” ma di intendere “politica industriale”. In questo caso, l’obiettivo principale non è tagliare le emissioni, ma scegliere una certa tecnologia e (attraverso sussidi, obblighi, ecc.) favorirne l’applicazione. Anche qui, peraltro, si corre il rischio di avere un effetto distorsivo: si rischia di tassare maggiormente i poveri o favorire i ricchi. Ha senso, per esempio, trovare degli strumenti che incentivino gli investimenti in efficienza energetica soprattutto nei condomini. Ma se poi si scopre che tale misura interviene sui condomini di famiglie benestanti, che molto probabilmente già avevano una classe energetica più alta rispetto ai condomini delle famiglie a basso reddito, allora abbiamo un problema. In definitiva, mentre nel caso di una politica di pricing delle emissioni si ottiene un gettito che può poi essere devoluto a favore delle fasce sociali medio-basse, quando si intraprende una politica di spesa (incentivi, sussidi, ecc.) allora diventa necessario aumentare le tasse per trovare i fondi necessari.
Negli ultimi due capitoli del libro si fa un bilancio provvisorio del governo Draghi. Ora che questa esperienza di governo è finita in anticipo, pensate che sia più giusto definirla un’occasione perduta e strozzata troppo presto o piuttosto che abbia lasciato un segno? E si può avere fiducia che, se il governo Draghi ha effettivamente lasciato una sua eredità, le forze politiche che formeranno il nuovo Parlamento sapranno dare un seguito a questa eredità?
Alberto Saravalle: Abbiamo scritto che il governo Draghi si stava muovendo con un passo diverso da quelli che lo hanno preceduto non solo nel merito delle riforme adottate, ma anche per il modo con il quale sono stati affrontati i tanti temi “caldi”. Non abbiamo mai pensato che questo governo potesse risolvere, come per magia, tutti i problemi irrisolti da decenni. Il nostro auspicio era che in questo pur breve periodo, che fin dall’inizio sapevamo sarebbe durato al massimo due anni, venisse realizzata una massa critica di riforme suscettibile di superare ritardi “atavici”. Il PNRR contempla, infatti, sia riforme sia investimenti, ma nella prima fase – com’è noto – l’enfasi è stata posta soprattutto sulle riforme. E dunque l’occasione era propizia per portare a compimento una serie di riforme da tempo attese (giustizia, fisco, concorrenza, ecc.). Dal momento che questa esperienza è venuta meno prima del previsto la sua portata riformatrice ne risulta limitata. Lo vediamo, per esempio, con la legge sulla concorrenza che durante l’iter di approvazione ha perso pezzi. E non si sa ancora chi scriverà i decreti attuativi dove sta la vera sostanza della legge. È inevitabile essere preoccupati sull’esito di queste riforme lasciate a metà strada.
Carlo Stagnaro: In questi mesi si è avuta la sensazione che, nonostante il premier si sforzasse per spingere un’agenda di riforme, vi fosse una forte resistenza bipartisan in Parlamento. Quale che sia l’esito delle elezioni, è ragionevole aspettarsi che questi ostacoli si ripresentino e addirittura aumentino. E purtroppo non avremo un leader autorevole come Draghi per contrastare queste resistenze. Non mi aspetto, perciò, un radioso futuro riformista nei prossimi mesi. Certo, è presto per capire l’orientamento dei vari partiti, però ho visto ben pochi esponenti politici parlare in campagna elettorale di concorrenza o riforma fiscale. Chi affronta questi temi lo fa parlando solo per slogan. Dobbiamo ricordare che i fondi del PNRR sono vincolati non tanto all’approvazione di leggi manifesto (come avveniva nel passato) quanto all’effettiva attuazione delle riforme. Quindi i prossimi governi dovranno decidere se sia politicamente preferibile bocciare una certa riforma che il proprio elettorato disapprova o completare il lavoro del governo Draghi e incassare i contributi collegati all’attuazione del PNRR. Si badi bene: è perfettamente legittimo che un governo sia talmente contrario a una data riforma da essere disposto a rinunciare ai fondi europei pur di non realizzarla. Ma almeno così sarà costretto a farlo venendo allo scoperto, con una quantificazione precisa del danno per il nostro erario.
Alberto Saravalle: Draghi ha avuto il grande merito di internalizzare il processo riformatore spiegando agli italiani che queste riforme servono al nostro paese per riprendere la via della crescita e chiarendo che il PNRR lo abbiamo scritto noi (non ci è stato dettato dalle istituzioni europee). Certo, abbiamo dovuto tenere conto delle raccomandazioni annuali della Commissione, ma queste sono estremamente generiche. Il governo aveva pertanto ampia discrezionalità per determinare il contenuto del proprio Piano, dando la prevalenza ad alcune voci, per noi prioritarie, rispetto che ad altre. Il prossimo governo si troverà dinanzi una partita già definita. Il Commissario all’economia Gentiloni ha detto chiaramente di non illudersi di riscrivere il PNRR. Forse qualche spazio di rinegoziazione sussiste per quanto riguarda gli investimenti: la guerra e la crisi energetica possono, infatti, giustificare ritardi o maggiori costi. Ma non per le riforme. Se queste non verranno realizzate, non otterremo i finanziamenti e i contributi previsti. La mia principale preoccupazione è che ciò porti a una nuova fase di scontro con l’Europa (com’era avvenuto durante il governo Conte I). Il che ci riporterebbe in un’ottica in cui le riforme vengono imposte dall’esterno (pena il rischio di default), col risultato di ravvivare quel forte sentimento antieuropeo che ha alimentato movimenti populisti e sovranisti e che sembrava essere stato ormai sconfitto dal Piano Next Generation EU.
Tornando sul tema delle disuguaglianze, si è detto che esse andrebbero combattute facendo si che tutti abbiano maggiori opportunità ed evitando di continuare a favorire determinate categorie. Osserviamo però che anche all’interno di queste stesse categorie, come pensionati ed occupati, forti disuguaglianze persistono. Per esempio, è cresciuta la polarizzazione fra i lavori, in termini di qualità, remunerazione e stabilità e il 10% dei lavoratori riceve un salario del 20% inferiore rispetto al minimo salariale, acuendo il problema dei working poor. Inoltre, negli ultimi mesi abbiamo assistito ad un intensificarsi del conflitto sociale, per esempio nel settore della logistica. Quali sono dunque le riforme del mercato del lavoro che ritenete necessarie per combattere queste problematiche e per risolvere il conflitto tra capitale e lavoro che sembra esistere ancora?
Alberto Saravalle: Mi pare che ci si stia muovendo verso la riduzione del cuneo fiscale a favore del lavoratore, riduzione che io giudico positivamente. Mi sembra un modo per ovviare, almeno in parte, a questo fenomeno del lavoratore povero.
Carlo Stagnaro: Sono d’accordo, il tema della riduzione del cuneo fiscale è fondamentale. E altrettanto fondamentale è riprendere il percorso delle politiche attive del lavoro, interrotto in maniera netta dai due governi Conte. Il modo migliore per proteggere il lavoratore è incrementare il suo potere contrattuale nel lungo termine mettendolo nella condizione di poter dire: “io me ne vado a lavorare da un’altra parte”. Il che presuppone un’economia dinamica che attrae nuove imprese. Permettetemi poi di dire che un po’ di conflitto è sano e fisiologico. E nella fisiologia del sistema la gestione e la risoluzione del conflitto è affidata alla negoziazione tra azienda e lavoratori (attraverso i sindacati) e, a un livello superiore, alla contrattazione tra parti sociali. Credo che gran parte del dibattito sul salario minimo legale in Italia nasca dalla delegittimazione del sindacato. Basta andare a leggere quello che scriveva fino a poco tempo fa Beppe Grillo sul suo blog, quando si occupava di questi temi. Il sostrato di questo dibattito è che i sindacati non sanno fare il loro mestiere. Ciò giustificherebbe l’intervento della politica che per legge fissa un salario minimo determinato più o meno a caso. Normalmente non sono io quello che nei dibattiti difende i sindacati, ma credo che questo sia davvero un tema profondo e paradossalmente non riconosciuto. Si discute su quale sia l’importo “giusto”: 10 euro, 15 euro, ecc. Ma il problema, a mio avviso, non è l’importo, che dipende da tantissimi fattori diversi. il vero dibattito dovrebbe piuttosto vertere su quale sia la procedura da seguire per determinarlo e chi siano gli attori più adeguati a individuare l’importo “giusto”. Per di più non dimentichiamo che un contratto non si limita a stabilire la retribuzione oraria, ma fissa anche le condizioni lavorative, l’eventuale welfare aziendale e così via. Tutte queste cose rischiano di sparire in un dibattito che si polarizza sull’importo e che a quel punto esclude le parti negoziali.
Alberto Saravalle: Troppo spesso si utilizzano degli slogan che, semplificando, travisano i termini reali del dibattito (“aboliamo la povertà” ne è un ottimo esempio). Nel caso del reddito di cittadinanza sembrava che il conflitto fosse tra fautori e oppositori a priori, mentre i veri temi in discussione erano le modalità di amministrazione, gli incentivi per favorire il reinserimento nel mondo del lavoro, le politiche attive che dovevano accompagnarlo. Oggi si discute del salario minimo, ma il problema più che nella quantificazione, sta nella regolamentazione. E questa è una cosa molto più complessa che non si presta a frasi ad effetto o meme.