Per sedare la rivolta dei gilet gialli, Macron ha fatto promesse di ulteriore spesa pubblica stimate in circa 10 miliardi di euro. Sebbene in buona parte si tratti di misure one-off, che quindi non incidono sul deficit strutturale francese, esse si appoggiano su un budget per il 2019 già ai limiti delle regole europee.
Infatti, la Commissione aveva definito il progetto di bilancio presentato da Parigi “at risk of non-compliance“, stigmatizzando oltre tutto “i limitati progressi compiuti in relazione alla parte strutturale delle raccomandazioni fiscali” dell’anno scorso.
La situazione che si è venuta a creare ha così del paradossale: l’uomo che finora si presentava come il paladino dell’Europeismo – l’unico leader che cercava di promuovere politiche volte a una maggiore integrazione e condivisione in Europa – rischia oggi di apparire come l’ennesimo politico opportunista che abbandona i propri principi per salvaguardare la poltrona.
Oltre al danno la beffa: il suo repentino revirement, nonostante le distinzioni tra la situazione francese e quella italiana prontamente evidenziate da Moscovici, può ormai essere utilizzata da tutti coloro, a partire da Di Maio e Salvini, che contestano le regole fiscali dell’Unione.
Se anche l’inquilino dell’Eliseo riuscisse a salvare capra e cavoli – trovando un modo di far rientrare la spesa aggiuntiva all’interno degli spazi di flessibilità lasciati dal patto di stabilità – in ogni caso il suo voltafaccia ne ha necessariamente ridimensionato le ambizioni. Come ha scritto Ferdinando Giugliano, “tutte le residue speranze per il sogno macroniano per l’eurozona sono morte con le sue dichiarazioni di questa settimana”.
Come si è arrivati fin qui? Per comprendere gli errori commessi da Macron occorre fare un passo indietro e guardare all’origine delle proteste. Tutto nasce dal progetto del Governo francese di incrementare gradualmente la tassazione sui combustibili fossili: tra il 2019 e il 2022, l’accisa sul gasolio e quella sulla benzina avrebbero dovuto crescere, rispettivamente, da 594 a 647,6 euro per 1.000 litri e da 662,9 a 686,7 euro. Contemporaneamente la carbon tax avrebbe dovuto salire da 44,6 a 55 euro la tonnellata di CO2.
Ciò avrebbe fatto della Francia lo Stato membro dell’Ue con la fiscalità più aggressiva sui carburanti. La ratio dell’intervento – come spiega un opuscolo del Ministero della Transizione ecologica e solidale – è di penalizzare le tecnologie che producono inquinamento, in modo da accelerare la transizione verso un’economia carbon-free.
A prima vista sembra un’operazione da manuale, ma ci sono almeno due vizi all’origine (che in parte si ritrovano anche nell’emendamento sul bonus/malus automobili promosso, e poi “rinnegato”, dal governo italiano) che ne hanno stravolto la portata: uno politico, l’altro relativo al disegno della tassa.
Il primo problema sta nell’impatto distributivo che non è stato adeguatamente valutato. Ogni incremento della fiscalità energetica ha un effetto sproporzionato sui più poveri, la cui spesa energetica ha una maggiore incidenza rispetto alla spesa totale: la loro domanda di energia tende a essere più rigida rispetto a quella dei “ricchi”, le auto meno inquinanti sono mediamente più costose, e la frequenza con cui essi sostituiscono il proprio veicolo è inferiore.
Per tutte queste ragioni, mentre l’incremento delle accise può spingere i “ricchi” ad adeguare comportamenti e scelte di consumo, sui “poveri” ha l’unica conseguenza di erodere il potere d’acquisto del loro reddito (che, nella maggior parte dei casi, deriva da lavoro dipendente o pensione).
La seconda questione riguarda la destinazione del maggior gettito che, almeno nel breve termine, le imposte avrebbero dovuto generare. In assenza di indicazioni precise, i manifestanti (o chi li strumentalizza) hanno pensato che Macron avrebbe utilizzato i soldi delle loro tasse per finanziare riduzioni di imposta ai ricchi, che dunque avrebbero avuto un doppio vantaggio.
In definitiva è irrilevante se ciò sia vero, ed è inutile effettuare un’analisi razionale delle conseguenze su crescita e disuguaglianza delle politiche fiscali di Macron. Il punto è che, di fronte a questa obiezione, non esiste una risposta credibile, perché tutto si riduce alla parola del Governo contro quella della piazza. Quando si crea tale dinamica, è pressoché impossibile che una parte convinca l’altra.
Ed è proprio su questo terreno che l’ecotassa francese si discosta dalle indicazioni da manuale: la fiscalità ambientale non solo deve essere “neutrale”, ma deve anche sembrarlo. In altri termini, essa va disegnata in modo tale da chiaramente “restituire” (per esempio attraverso una corrispondente riduzione della tassazione del lavoro) ciò che preleva, così da determinare un incentivo a spostare i consumi verso tecnologie pulite, senza tuttavia intaccare i salari reali.
Il governo francese ha dunque inseguito un obiettivo in sé condivisibile – usare la fiscalità per stimolare la transizione energetica – ma ha sottovalutato alcuni aspetti cruciali dell’intervento. E, si sa, il diavolo è nei dettagli. L’energia pulita, per chi non ha di che arrivare alla fine del mese, è un “nice to have“, non una priorità.
Per farla digerire occorre trovare delle compensazioni. Questo errore di valutazione ha scatenato una protesta di piazza che gli oppositori (interni ed esteri) hanno saputo volgere a loro favore, trasformandola da movimento disordinato e spontaneo in fenomeno organizzato e politicamente orientato. Sicché la Francia si trova oggi in una situazione peggiore di quella di partenza: non solo ha dovuto rinunciare all’ecotassa, ma ha anche perso per strada l’impegno di Macron a fare ordine nelle finanze pubbliche.
Sarebbe solo un problema francese, se non avesse anche un risvolto europeo che ci riporta a quanto dicevamo in apertura. In Francia, come in Italia, il pressapochismo politico ha delle esternalità negative che ora rischiano di far incartare ulteriormente lo sviluppo e l’appeal, dell’unificazione europea. Ahimè, la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni!
Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle