Nei giorni scorsi si è aperto un nuovo capitolo nel duro confronto in atto tra Stati Uniti e Russia: il presidente Biden ha annunciato una serie di pesanti sanzioni in risposta alle interferenze nelle elezioni del 2020, alle attività di hackeraggio a danno di agenzie del governo americano e di numerose società private nonché ad alcuni individui per il ruolo svolto nell’occupazione della Crimea (annessa nel 2014). Inevitabilmente, la Russia ha risposto nei giorni seguenti con l’espulsione di 10 diplomatici e alcune restrizioni ai viaggi in Russia per il personale dell’ambasciata USA.
Nel passato, le misure americane raramente hanno avuto successo nel modificare il comportamento di Mosca. Da anni, infatti, sono state adottate molteplici sanzioni nei confronti dei servizi segreti russi (FSB e GRU) per altri cyber attacchi e la proliferazione di armi di distruzione di massa, oltre a quelle adottate da Stati Uniti e Unione europea nei confronti della Russia e di numerosi individui o enti in relazione alla predetta annessione della Crimea. Se un qualche effetto hanno avuto, è stato casomai quello di esacerbare ulteriormente lo scontro, come le recenti attività di hackeraggio hanno dimostrato. La decisione dell’amministrazione statunitense è dunque volta più che altro a dare un segnale politico al Cremlino, tant’è che è stata accompagnata da un invito a un incontro in terreno neutro per aprire un nuovo dialogo.
Tralasciamo però i profili di politica estera per concentrare l’attenzione sul contenuto delle sanzioni e soprattutto sulle loro implicazioni. Questa volta, oltre alle misure nei confronti delle società responsabili degli attacchi informatici e degli individui a vario titolo coinvolti, l’Office of Foreign Assets Control (che fa capo al dipartimento del Tesoro) ha inibito alle istituzioni finanziarie statunitensi di sottoscrivere obbligazioni nel mercato primario e comunque finanziare la Banca Centrale, il Fondo sovrano e il Ministero delle finanze della federazione russa. Insomma, l’intento è di colpire la Russia nel portafoglio, limitandone l’accesso al mercato dei capitali.
Mentre le sanzioni economiche che hanno colpito l’interscambio commerciale si sono rivelate nel complesso poco efficaci e hanno comportato una serie di ritorsioni, quelle che toccano la capacità di finanziarsi sono in linea di principio molto più incisive. Gli Stati Uniti, infatti, avvalendosi della posizione dominante del dollaro negli scambi internazionali e in generale della centralità dell’economia americana, sono in grado di costringere anche banche e società di paesi terzi a boicottare il paese destinatario delle proprie sanzioni. Così, per esempio, benché i governi dell’Ue si fossero fermamente opposti alle sanzioni di Trump contro l’Iran e avessero cercato a tutti i costi di mantenere un dialogo con Teheran, le principali società europee sono comunque uscite dal paese per evitare di incorrere a loro volta in pesanti multe.
L’Europa, sotto questo profilo, nonostante la significativa potenza di fuoco della propria economia, ha un ruolo secondario sulla scena geopolitica sia perché l’euro resta una valuta meno utilizzata negli scambi internazionali sia perché le proprie banche e società non possono prescindere dal mercato USA e dai rapporti con le istituzioni finanziarie statunitensi. Di qui i molteplici tentativi in atto per rafforzare il ruolo internazionale dell’euro.
La Commissione ha recentemente pubblicato una comunicazione nella quale indica ben 15 azioni chiave per promuovere l’apertura, la forza e la resilienza del sistema economico e finanziario europeo. Come? Innanzitutto, aumentando la negoziazione denominata in euro di titoli di debito, prodotti di base e altri strumenti finanziari; in secondo luogo, rafforzando le infrastrutture dei mercati finanziari dell’UE; infine, migliorando l’attuazione e l’applicazione dei regimi sanzionatori dell’Ue. Un importante passo in questa direzione verrà, implicitamente, anche dal piano Next Generation EU e dal programma SURE (il sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione nello stato di emergenza): le numerose emissioni di bond per finanziare i programmi apriranno infatti la strada per la creazione di safe asset europei, un passaggio essenziale per il rafforzamento del ruolo dell’euro.
Per le stesse ragioni, anche la Cina sta fortemente spingendo per diminuire la propria dipendenza dal dollaro. Si è, infatti, resa conto che nonostante sia da tempo la seconda economia e sia addirittura in procinto di superare gli Stati Uniti, resta un gigante dai piedi di argilla per la debolezza del proprio sistema finanziario. Così sta esplorando la possibilità di utilizzare una moneta digitale e internazionalizzare lo yuan, promuovendone l’utilizzo in particolare nelle transazioni con i paesi dell’Asean.
La contesa per la supremazia valutaria può, infine, contribuire a spiegare la forte ostilità della Federal Reserve contro le criptovalute, definite solo pochi giorni fa dal Presidente Powell “un veicolo per la speculazione”: esse, infatti , possono consentire agevolmente di eludere le sanzioni, evitare i controlli e disintermediare le istituzioni finanziarie.
Nei prossimi anni, dobbiamo dunque attenderci che la competizione globale da parte di Ue e Cina al predominio statunitense si svolga in parte anche sul terreno monetario, con l’obiettivo di rendere il sistema economico e finanziario più multipolare. In questo senso, le schermaglie con la Russia rappresentano un test non solo per vedere fino a che punto Mosca può reggere un’escalation, ma anche per osservare la strategia di Pechino e Bruxelles. Come direbbe von Clausewitz, la politica monetaria è la prosecuzione della guerra con altri mezzi.