Di Maio e Salvini hanno cercato l’incidente con la Commissione europea – puntualmente verificatosi con la bocciatura della bozza della manovra di bilancio – perché stanno giocando secondo le regole della politica italiana e si illudono che, tirando la corda, l’avranno vinta. Sfortunatamente per loro e per noi, Bruxelles non ha alternative perché in ballo non c’è una scelta discrezionale sullo zero virgola del Pil, ma la stessa credibilità – e dunque il futuro – delle istituzioni Ue.
Il disco rosso della Commissione, infatti, dipende più dal modo in cui la legge di bilancio è stata presentata che dai suoi contenuti. Per capirlo, bisogna anzitutto comprendere qual è il quadro giuridico al cui interno i due attori – l’esecutivo italiano e quello Ue – si stanno muovendo.
Tutti gli Stati membri dell’Unione europea sono tenuti a ridurre progressivamente il rapporto tra debito pubblico e Pil, in cambio dei benefici che derivano dal mercato interno e dalla moneta comune. Le scelte nazionali in materia di politica di bilancio, con le revisioni del Patto di stabilità e crescita intervenute negli anni della crisi finanziaria, vengono valutate in un processo che si fonda essenzialmente sulla valutazione tecnica della Commissione lasciando ben poco spazio alle considerazioni politiche in seno al Consiglio.
In compenso, il giudizio della Commissione, a differenza del passato, offre importanti margini di flessibilità, che tengono conto sia del quadro macroeconomico (e in particolare dell’andamento del ciclo), sia di eventuali condizioni particolari che possono giustificare deroghe (come l’adozione di riforme pro-crescita oppure il verificarsi di calamità naturali). Proprio l’Italia, negli scorsi anni, ha fruito in modo massiccio della flessibilità europea, spendendo in tal modo circa 30 miliardi di euro in più di quanto le sarebbe stato concesso in forza di un’applicazione “rigida” delle norme.
Con un po’ di fantasia e pratica negoziale, l’Italia avrebbe potuto percorrere questa strada per portare a casa una parte consistente del programma. In sostanza, se l’obiettivo del governo fosse stato realmente tradurre in pratica le promesse elettorali, anche se i contenuti della “manovra del popolo” avranno ben pochi effetti sulla crescita (come hanno riconosciuto le principali istituzioni nazionali ed estere), avrebbe dovuto costruire una “narrazione” tale da presentarle come riforme strutturali che giustificano (modeste) deviazioni dagli obiettivi europei.
La strategia comunicativa adottata da Lega e M5s non solo è politicamente errata, ma è anche dannosa in termini finanziari. Infatti, la maggiore capacità di spesa cui ambiscono deriva dalla differenza tra l’eventuale maggior deficit (il governo chiede 0,8 punti di Pil al di sopra di quanto pattuito) e la maggior spesa per interessi (dovuta allo spread).
Facciamo un esempio: se l’Italia porta a casa 10 miliardi di euro aggiuntivi grazie al deficit, ma deve spenderne 5 più delle attese per il servizio al debito, il vantaggio “reale” in termini di spesa pubblica è 5 miliardi. Non sarebbe quindi meglio seguire una linea di prudenza negoziale, che tenga calmi i mercati e consenta di mantenere la spesa per interessi dentro le previsioni, e in tal modo riduca la posta in gioco a Bruxelles a soli 5 miliardi? Invece, l’aggressività anti-europea del nostro esecutivo ha determinato una crescente sfiducia da parte dei mercati e, dunque, costretto la Commissione ad alzare le barricate.
Il governo – dicevamo – ha seguito scientemente la via dello scontro. Lo dimostrano la lettera con cui il Ministro Tria ha risposto ai rilievi della Commissione e la successiva replica dei Commissari Dombrovskis e Moscovici. “Il Governo italiano riconosce che l’approccio prescelto alla politica di bilancio non rispetta le regole del Patto di Stabilità e crescita”, ha scritto Tria.
Reazione di Bruxelles: “chiediamo all’Italia di inviare un Documento programmatico di bilancio rivisto, alla luce del fatto che l’attuale non rispetta né le raccomandazioni del Consiglio né gli impegni assunti dall’Italia stessa”. Ancora più esplicito Dombrovskis in conferenza stampa: l’Italia va “apertamente e consapevolmente” contro le regole.
La chiave è proprio in questi due avverbi, che peraltro hanno trovato immediata conferma nella demagogica reazione di Salvini e Di Maio: “attaccano un popolo” e “non ci fermeremo”, rispettivamente. Queste affermazioni sono indice di un calcolo politico sbagliato: i due vicepremier giocano secondo le regole di Roma – cioè del teatrino della politica – ma la partita si svolge secondo quelle di Bruxelles.
Non ci si illuda che il Consiglio riesca a coagulare la maggioranza qualificata necessaria per respingere la inevitabile raccomandazione della Commissione. Non sarebbero solo Macron e Merkel a schierarsi contro il nostro Paese, ma proprio i governi sovranisti, tutti in prima fila a favore della linea dura.
Il vicolo cieco nel quale Di Maio e Salvini si stanno infilando nasce da un pesante fraintendimento su quali siano le regole d’ingaggio nel rapporto con la Commissione Ue. Il governo italiano va a Bruxelles con l’obiettivo di mostrare i muscoli al proprio elettorato; l’esecutivo Ue gli risponde che lo scontro deve svolgersi sul ring con le regole che ci siamo dati e non può proseguire al di fuori delle corde. Come dice Jules Winnfield in Pulp Fiction, “non è lo stesso fottuto campo da gioco, non è lo stesso campionato e non è nemmeno lo stesso sport”.
Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle