Le politiche, diceva Milton Friedman, non vanno giudicate per le loro intenzioni, ma per i loro effetti. Il dazio sul carbonio per i beni importati da paesi extra-Ue, che l’Unione si appresta a introdurre dopo una prima fase sperimentale già iniziata, rischia di danneggiare le imprese esportatrici, senza produrre benefici ambientali.
Dal 2005, l’Unione ha introdotto un meccanismo, l’Emissions trading system, per ridurre le emissioni nei settori industriali. Per ogni tonnellata di CO2, le imprese devono acquistare un certificato. L’obiettivo è indurle a tagliare le emissioni per risparmiare sui certificati. I produttori stranieri, non dovendo ottemperare, sono favoriti, specie nei settori cosiddetti hard to abate, come l’acciaio o il cemento. Per ribilanciare le cose, gli europei in tali settori hanno finora ricevuto dei certificati a titolo gratuito. Così, hanno comunque interesse a tagliare le emissioni perché potranno monetizzare i certificati, senza però essere eccessivamente penalizzate.
È qui che entra in gioco il CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism). Nella prima fase di applicazione (iniziata in ottobre), gli importatori devono documentare l’effettivo contenuto carbonico dei beni che immettono in commercio nell’Ue. Nel 2026, si arriverà all’applicazione del dazio vero e proprio. In quel momento inizieranno a essere gradualmente eliminate le quote di emissione assegnate a titolo gratuito. Molto bello in teoria: complicatissimo in pratica. Anzitutto, verificare la veridicità delle informazioni fornite sarà pressoché impossibile. Inoltre, se il dazio si applica a un prodotto intermedio, ma non a quello finito, potrebbe diventare paradossalmente conveniente l’import di quest’ultimo, per evitare il balzello. Per esempio, produttori di pale eoliche sono già scesi sul piede di guerra perché temono che l’applicazione del dazio sull’acciaio finirà per mettere benzina nel motore dei loro concorrenti stranieri.
Anche assumendo che tutto funzioni, l’equiparazione nei costi è limitata alle importazioni in Europa. Sui mercati esteri non ci sarà alcun intervento equalizzatore. Quindi, le imprese europee, non ricevendo più i certificati a titolo gratuito, saranno gravate da costi maggiori che, in alcuni casi, potrebbero diventare insormontabili, anche perché si sommano ad altri handicap (per esempio, i maggiori costi energetici). In definitiva, il CBAM potrebbe portare a una concorrenza leale sul mercato interno (sempre che si riesca a calcolare il reale contenuto carbonico dei prodotti importati), ma al tempo stesso è suscettibile di pregiudicare seriamente le imprese esportatrici che sono un pezzo cruciale del tessuto industriale italiano ed europeo.
Più in generale, il CBAM rischia di segmentare ancor più il commercio internazionale, già messo duramente a prova in questi anni da sussidi, controlli alle esportazioni, sanzioni, ecc.. Alcuni giorni fa, un lungo articolo di Alice Hancock e Sylvia Pfeifer sul Financial Times ha evidenziato i malumori non solo cinesi, ma anche americani Il CBAM rischia insomma di avere solo un effetto redistributivo, senza cambiare il quantum globale delle emissioni. Per giunta, dopo l’Europa altri paesi potrebbero muoversi nella stessa direzione: il Regno Unito e l’Australia hanno già annunciato misure analoghe, e non è detto che non lo facciano anche gli Stati Uniti. Naturalmente, l’Ue spera nel “effetto Bruxelles”, stabilendo cioè uno standard che poi gli altri Stati vorranno emulare. Non basta però che accettino il principio, occorre anche far coincidere i criteri e i metodi di calcolo delle emissioni. Se ognuno applica un meccanismo formalmente analogo, ma basato su standard differenti (oltre tutto senza possibilità concreta di verifiche incrociate), anziché convergere verso condotte più virtuose, si andrà verso una situazione caotica in cui gli unici a guadagnarci saranno consulenti e speculatori, da sempre i più abili nell’arbitraggio tra i diversi sistemi.
Aprire unilateralmente un nuovo fronte di conflittualità, senza certezza che le imprese europee ne traggano vantaggio né che ciò comporti un complessivo miglioramento nella qualità ambientale, ci pare una scelta azzardata. Stiamo smontando un sistema, pur imperfetto, per sostituirlo con uno che presenta più dubbi e costi che certezze e benefici. E che ci espone a ritorsioni da parte dei nostri partner commerciali, inclusi quelli politicamente amici come gli Usa. Insomma, un progetto partito in teoria con le miglior intenzioni che rischia di rivelarsi in pratica un disastro.