La realtà supera spesso l’immaginazione. Di questi tempi, però, quanto accade in politica ed economia è talmente imprevedibile che talora ci pare di trovarci in un incubo dal quale non riusciamo a svegliarci. Nell’ultima settimana, per esempio, le tanto intempestive quanto generiche rivelazioni del Direttore del Fbi hanno rimesso in pista Trump. Siamo così, in questo finale di partita, dinanzi al serio rischio di una vittoria che per molti mesi era stata relegata a mera astratta ipotesi. Anche sul fronte Brexit le notizie sono inquietanti: la High Court ha sancito a sorpresa che il governo britannico non può attivare la procedura per la fuoriuscita dall’Unione senza un voto del Parlamento. Un’ulteriore conferma della estrema leggerezza con cui è stata affrontata la questione. Resta il fatto assai preoccupante che inizia così una crisi istituzionale senza precedenti, in un momento già difficilissimo per quel paese.
Come siamo potuti arrivare fin qui? La triste verità è che da qualche decennio prevale in occidente una visione di superficiale ottimismo che spesso fa sì che non ci si confronti con la realtà – assai diversa da come la vogliamo credere. Come se – per dirla con Voltaire – vivessimo nel migliore dei mondi possibili. Due esempi in tema di politica estera ed economia possono chiarire il punto. Con la fine della guerra fredda si era diffusa la convinzione che il nuovo ordine internazionale, basato sul modello di democrazia occidentale, avrebbe finalmente assicurato la pace e la cooperazione in un mondo meno ideologizzato e sempre più aperto al libero commercio. Abbaglio durato pochi anni soltanto. I regimi autoritari sono in crescita ovunque oggi e la Russia di Putin si è andata sempre più radicalizzando. Un brusco richiamo alla realtà è venuto dal noto politologo americano Robert Kagan che ha teorizzato “il ritorno della storia e la fine dei sogni”. Lo stesso vale per l’illusione che il progresso tecnologico avrebbe contribuito a migliorare le condizioni economiche e sociali delle prossime generazioni, com’era avvenuto in passato.
La crisi economica e finanziaria che ha duramente colpito i principali paesi in occidente dal 2008 ci ha costretto a fare i conti con una dura verità: i nostri figli lavoreranno meno, guadagneranno meno e vivranno in una società con diseguaglianze di reddito ancor più ampie. I segnali di pericolo ci sono stati ma spesso sono stati ignorati in nome di una cieca fede nel progresso. Come ora accade per le elezioni americane, anche per la Brexit il rischio è stato fino all’ultimo sottovalutato. Se si fosse per tempo compresa la dimensione del malessere di una larga parte della popolazione, la campagna elettorale sarebbe forse stata condotta in modo diverso. Anche a fatto compiuto, si continua a mettere la testa sotto la sabbia, ritenendo che il peggio sia passato (le perdite sui mercati finanziari e la svalutazione della sterlina).
Che dire poi dello stato dell’Unione europea? Crescono ovunque in misura preoccupante i movimenti populisti, nazionalisti e antieuropei: Polonia e Ungheria hanno intrapreso una deriva sempre più autoritaria, l’Austria tra poche settimane potrebbe avere un presidente di estrema destra; il prossimo anno, in Francia Marine Le Pen potrebbe raccogliere al secondo turno più di un terzo dei voti, e in Germania, Merkel potrebbe perdere la maggioranza. A fronte di tutto ciò difetta in Europa una leadership in grado di contrastare queste pericolose tendenze proponendo ricette alternative che non siano la retorica europeista e una politica delle istituzioni di piccolo cabotaggio. Non possiamo continuare a ignorare questi pericoli. Il malessere sociale ovunque in occidente ormai investe larghi strati della popolazione. Basti pensare all’Ungheria di Orban e alla Polonia di Kaczynski. Non vogliamo dire che la storia si ripete, ma non possiamo neppure dimenticare che, nel secolo scorso, partiti di estrema destra, profondamente antidemocratici, sono inizialmente saliti al potere vincendo le elezioni, nell’illusione che si trattasse di un fenomeno passeggero e controllabile. E allora tolleranza zero per chi mette in questione i valori su cui si regge la nostra società. Troppo spesso poi ci si lascia ammaliare da chi invoca il vento del “cambiamento” anti establishment, come se fosse una panacea contro tutti i mali. Ma cambiamento non è di per sé sinonimo di miglioramento. Serve una dose di sano realismo per contrastare questi fenomeni. Clinton può non sembrare il candidato ideale, ma ciò non è una ragione sufficiente per lasciar spazio a un personaggio della risma di Trump. L’Europa certamente non funziona come vorremmo, ma è anche il baluardo che ci ha assicurato democrazia e benessere per oltre cinquant’anni e che impedisce che le crisi economiche, sociali e politiche che talora investono i nostri paesi degenerino. Il mondo come lo avevamo conosciuto nel dopoguerra sta cambiando e non per il meglio. In questo momento non servono voli pindarici o slanci di retorica, ma piccoli passi concreti nella giusta direzione. Per tornare a Voltaire, come saggiamente direbbe Candide: “bisogna coltivare il nostro giardino”.
Alberto Saravalle