La mancata acquisizione dei cantieri Stx da parte di Fincantieri, per effetto della nazionalizzazione decisa in zona cesarini da Macron, ha sollevato – com’era prevedibile – un polverone. Alcuni commenti si sono incentrati sugli aspetti politici della vicenda, a partire dal repentino cambio di verso del neo presidente, che dopo essere stato eletto da europeista sembra muovere i primi passi nel più tradizionale solco colbertista. Altri si sono, invece, dilungati sulla eccessiva “apertura” del nostro paese (a contrario dei nostri vicini) o sulla inaffidabilità all’estero delle nostre imprese con un azionista pubblico. Infine, per i soliti sciovinisti la querelle è stata l’occasione per proporre misure di rappresaglia nei confronti delle imprese di oltralpe.
Nel complesso, però, tutti danno ormai per scontata la vittoria di Macron (che in settimana invierà a Roma il ministro dell’economia Le Maire per addolcire la pillola all’Italia, presumibilmente con vaghe promesse sulla futura privatizzazione). Questo francamente stupisce. In fin dei conti in Europa prevale ancora la “rule of law” e in apparenza – per quanto si sia potuto apprendere dai comunicati ufficiai e dalla stampa – questa è stata violata dal governo francese.
Ricapitoliamo brevemente i fatti noti: (i) Fincantieri ha partecipato all’asta per la vendita del 66,66% di Stx France S.A. e il 3 gennaio le è stato notificato di essere stata selezionata quale
preferred bidder nel processo di vendita; (ii) il 6 aprile il Segretario di Stato del Governo francese per l’Industria, Sirugue, ha confermato il
raggiungimento di un accordo di principio tra Fincantieri e il Governo francese in merito all’acquisizione di STX France; (iii) il 12 aprile Fincantieri ha firmato con lo Stato francese, rappresentato dall’Agence des Participations de l’Etat (APE),
l’Heads of Terms annunciato il 6 aprile 2017 che comprende le linee guida del piano industriale preparato da Fincantieri per STX France, condiviso con l’APE e prevede la disciplina della
corporate governance della società; in base all’accordo, Fincanteri si impegna a limitare la propria partecipazione al 48%, la Fondazione CR di Trieste acquisisce il 6,6% e viene concluso un accordo di durata ventennale con il governo francese che resta azionista al 33,3% mentre entra con una partecipazione del 12% la società pubblica DCNS; (iv) il 19 maggio viene
firmato l’accordo di compravendita per l’acquisizione del 66,66% del capitale di STX France dall’azionista STX Europe AS, facente capo a un gruppo coreano in procedura concorsuale; (v) il 31 maggio Macron dichiara che l’accordo di principio è da rivedere; (vi) il 19 luglio viene chiesto a Fincantieri di limitare ulteriormente la propria partecipazione in modo da consentire un azionariato paritario tra italiani e francesi; (vii) infine, giunge la notizia ufficiale che lo Stato francese
eserciterà il proprio diritto di prelazione (in quanto azionista di Stx) nazionalizzando “temporaneamente” la società.
La Francia, si badi bene non ha agito in virtù di poteri speciali o prerogative pubblicistiche (anche perché trattandosi di un’acquisizione da parte di una società dell’Unione europea avrebbe comunque incontrato delle limitazioni nel loro esercizio), bensì come soggetto privato, in virtù dei propri diritti di azionista. Si tratta di una giustificazione che appare scivolosa sotto ogni profilo: Fincantieri si è aggiudicata una quota di controllo di Stx attraverso una procedura competitiva e trasparente. Questo semplice fatto suggerisce che non vi erano – e non sono emersi nei mesi successivi – altri soggetti, pubblici o privati, in grado di fare un’offerta migliore sulla base di considerazioni puramente economiche. Di conseguenza, l’improvviso voltafaccia del Governo francese verosimilmente riflette considerazioni che esulano dal piano economico-finanziario. L’intervento è discutibile sia sul piano della forma – con riferimento ai precedenti accordi – sia sul piano della sostanza.
Il comportamento dello Stato francese è prima facie suscettibile di ingenerare responsabilità civile per gli accordi del 12 aprile, poi disattesi, che, ancorché preliminari, comportavano quantomeno un obbligo di negoziare in buona fede per la loro conclusione. Per quanto, marginale il ristoro che ne potrebbe derivare, sarebbe comunque simbolicamente significativo far valere in giudizio l’illiceità del comportamento tenuto dal governo francese.
Maggiormente rilevante, però, è la possibile violazione del diritto dell’Unione per il comportamento discriminatorio a danno di una società italiana. E’ bensì vero che qui la Francia ha agito non d’imperio, ma come azionista privato, ma è del tutto evidente che si è trattato di un comportamento tenuto dichiaratamente per prevenire una società “italiana” dall’acquisire il controllo di Stx. La condotta francese, infatti, è privatistica solo in superficie: il momento e le modalità della decisione ne denunciano la natura più strettamente politica.
Si potrebbe pertanto configurare una violazione della norma che vieta le restrizioni ai movimenti di capitale, salvo talune ipotesi tassative quali “misure giustificate da motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza”. A tal riguardo la Corte di giustizia ha chiarito che obiettivi di natura squisitamente economica (o di politica industriale) non possono giustificare tali ostacoli. Perfino nel caso delle restrizioni eccezionali introdotte dalla Grecia nel cuore della crisi finanziaria, la Commissione ha stabilito che “le limitazioni devono essere intese in senso molto restrittivo, non devono esser discriminatorie e devono essere idonee e proporzionate alla luce dell’obiettivo perseguito”. Qui non sembra proprio che ricorrano questi presupposti: è soprattutto la tempistica a gettare un’ombra sull’operazione. Se vi fossero stati reali profili di sicurezza o di interesse nazionale, essi avrebbero dovuto emergere ben prima. In particolare, è impensabile che le dovute verifiche non siano state effettuate prima della sottoscrizione dell’accordo benedetto da Hollande; la conferma arriva, del resto, dal fatto che i problemi sono sorti non già in seguito all’emersione di “fatti nuovi” legati all’operazione o all’acquirente, ma solo in forza del cambio di guardia all’Eliseo. Dunque – anziché ripiegare su una soluzione di basso cabotaggio sul piano politico – perché non investire della questione la Commissione per far intraprendere una procedura d’infrazione contro la Francia. Si tratterebbe di un’arma che potrebbe rivelarsi molto efficace, dato il conclamato europeismo di Macron che qui si rivelerebbe solo a parole. A quel punto negozieremmo meglio.
Insomma, se c’è un giudice a Bruxelles, è il momento di chiamarlo in causa. La Commissione avrebbe una grande opportunità per passare dalle parole ai fatti e prendere davvero sul serio il mercato unico e l’opportunità di far crescere campioni europei, anziché nazionali.
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro