Si è appena assopita la polemica sulla riforma elettorale con l’accettazione – più o meno rassegnata – dell’Italicum e si sta per aprire il dibattito sulla riforma del Titolo V della Costituzione. Il tema è un po’ più ostico (come si evince dal nostro titolo) rispetto alla legge elettorale sulla quale ognuno, come per le formazioni calcistiche, ritiene di avere la ricetta giusta. Pertanto, finora, è passato abbastanza inosservato e sembra avere un maggiore consenso tra tutte le forze politiche, con la consueta eccezione del Movimento 5 Stelle che ha già iniziato la propria battaglia di retroguardia.
Com’è noto, il Titolo V riguarda le Regioni, le Provincie e i Comuni ed è stato ampiamente riformato con la legge costituzionale n. 3/2001 (confermata da un referendum), negli ultimi mesi del governo di centro-sinistra, nel disperato tentativo di recuperare credibilità con l’elettorato sempre più sensibile alle “sirene” del federalismo, allora in gran voga. L’obiettivo era di dare attuazione all’art. 5 della Costituzione che individua le autonomie locali come enti esponenziali delle popolazioni ivi residenti. In particolare, è stata ampliata l’autonomia legislativa delle Regioni a statuto ordinario, riconosciuta per la prima volta anche in via esclusiva. Allo Stato spetta un potere legislativo pieno solo per le materie di cui all’art. 117, 2° comma, mentre la competenza è concorrente nelle materie di cui al 3° comma. In via residuale, per i casi non previsti, la potestà legislativa spetta alle Regioni.
In sintesi, le Regioni hanno acquisito ampi poteri di spesa e di organizzazione, ma, poiché il prelievo fiscale rimane in larga parte in capo allo Stato, esse non hanno alcun reale incentivo a spendere in modo efficiente (anzi, più spendono più conquistano favori locali e possono contare sulla loro rielezione, sicché il “miglior governatore” è quello che riesce a farsi assegnare trasferimenti superiori alle sue reali esigenze). E quindi si crea quello che gli economisti definiscono un “moral hazard“.
A distanza di tredici anni è facile rilevare che il sistema non ha funzionato. Ciò si ricava innanzitutto dal lievitare dei costi per la realizzazione delle grandi opere pubbliche che coinvolgono diversi enti – sia per effetto dei ritardi dovuti alla frammentazione delle competenze, sia perché i trasferimenti statali avvengono in base alla spesa storica (quindi più e peggio si è speso nel passato più si riceve). In secondo luogo, lo dimostrano le numerosissime pronunce della Corte Costituzionale nelle controversie tra Stato e Regioni (dal 2002: circa il 40% delle sentenze), indice di un’eccessiva complessità nel riparto delle competenze legislative che spesso diventa semplice potere di veto reciproco. Spesso, la lunghezza delle cause che devono risalire tutti i gradi di giudizio è di per sé sufficiente a bloccare un investimento: il sistema che si è venuto a creare ha una sorta di incentivo perverso a non rilasciare autorizzazioni. Infine, è impossibile per lo Stato intervenire anche nei casi più palesi di abuso o di mancanza di trasparenza. Basti pensare alle incresciose vicende dei maxi-compensi degli assessori regionali su cui non c’è stato nulla da fare o alle opposizioni pretestuose a opere dai benefici ampi, ovvi, diffusi e riconosciuti (si pensi all’odissea dell’elettrodotto Rizziconi-Sorgente che, collegando la Sicilia al continente, potrebbe determinare consistenti risparmi sulla bolletta elettrica di tutti gli italiani).
Di una riforma del Titolo V, per la verità, si parla da tempo. Già il governo Monti nell’ottobre 2012 aveva presentato un disegno di legge costituzionale che, tra l’altro, avrebbe dovuto coinvolgere le Regioni a statuto speciale nel raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, introdurre il principio dell’unità giuridica ed economica della Repubblica (una sorta di clausola di supremazia, al pari di molti Stati federali), rivisitare gli elenchi delle materie di esclusiva competenza statale, ecc. Vaste programme, venuto meno, però, con la caduta del governo e le elezioni del febbraio scorso.
Il tema è, poi, stato ripreso nel dibattito della Commissione Riforme, dove diverse proposte sono state avanzate. Infine, è tornato d’attualità con l’avvento di Renzi alla segreteria PD che nel pacchetto di riforme istituzionali oggetto della sua offensiva politica, ha messo accanto alla riforma della legge elettorale e alla trasformazione del Senato in Camera delle autonomie, appunto la modifica del Titolo V. Da quanto si è appreso finora, il progetto, che dev’essere presentato alla segreteria Pd nei prossimi giorni, prevede il passaggio alla competenza esclusiva statale d’importanti materie come le grandi reti strategiche di trasporto e navigazione nazionale; produzione, trasporto e distribuzione di energia; e programmi strategici per il turismo. Dovrebbero inoltre essere eliminati i rimborsi elettorali per i consiglieri regionali, le cui indennità dovrebbero anche essere equiparate a quella del sindaco della città capoluogo di Regione.
Fin qui tutto bene, ma si può osare di più. Una volta che si decide di mettere mano alla riforma del Titolo V si può cercare anche di dare maggiore incisività all’azione dello Stato per costringere le Regioni riluttanti a porre in essere le misure di finanza pubblica necessarie a riordinare i propri bilanci in deficit. Mentre la “armonizzazione dei bilanci pubblici” è stata trasferita tra le materie di legislazione esclusiva dello Stato con la l. costituzionale che ha introdotto il c.d. “pareggio di bilancio”, il “coordinamento della finanza pubblica” è rimasto tra le materie di competenza concorrente. Anche senza modificare questa ripartizione delle competenze (che potrebbe suscitare una levata di scudi) sarebbe possibile chiudere il cerchio, tenuto conto che da tempo si è consolidato un orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo il quale “Regioni ed enti locali sono tenuti a concorrere alle manovre volte al risanamento dei conti pubblici, anche al fine di garantire l’osservanza degli obblighi assunti in sede europea, e che le misure adottate a tal fine dallo Stato costituiscono inevitabili limitazioni, in via indiretta, all’autonomia finanziaria e organizzativa regionale e locale”. A tal scopo dovrebbe essere chiarito che il potere sostitutivo del Governo nei confronti delle Regioni e degli enti locali di cui all’art. 120 della Costituzione, previsto per assicurare “la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica” (definizione troppo “aperta”), può essere esercitato ogni qualvolta vi sia un pericolo di disavanzo suscettibile di incidere sui saldi di bilancio. In tali eventualità lo Stato avrebbe facoltà di intervenire con flessibilità: non solo con tagli orizzontali, ma emanando norme organizzative e gestionali in sostituzione della Regione inadempiente. Per completezza, potrebbero prevedersi a livello costituzionale maggiori poteri d’intervento anche nei confronti degli enti locali diversi dalle Regioni. Questi temi non sono mai stati di attualità come oggi, di fronte alla prospettiva concreta di fallimento di una grande regione del Sud.
Forse è sperare troppo. Ma d’altro canto – diceva du Châtelet – per essere felici bisogna essere sensibili alle illusioni perché da esse traiamo la maggior parte dei nostri piaceri.
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro