“Damned if you do, damned if you don’t” è una comune frase idiomatica inglese che indica le situazioni nelle quali qualunque scelta venga fatta si sbaglia o comunque si va incontro a un esito non positivo. La frase ci è tornata in mente leggendo alcune delle prime reazioni alla pubblicazione del piano “Destinazione Italia”.
Facciamo un passo indietro per inquadrare meglio il problema. L’Italia, nonostante sia la seconda economia manifatturiera in Europa e la quinta globale, è da tempo il fanalino di coda in termini di investimenti esteri (nel 2012, appena lo 0,8% del nostro Pil, la metà esatta della media europea).
Le ragioni sono molteplici e a tutti ormai ben note (noi stessi ce ne siamo occupati in un recente post): eccessivo carico fiscale, lungaggini burocratiche, incertezza sulla normativa applicabile (per non dire abuso di leggi retroattive), inefficienza della giustizia civile, processi autorizzativi complessi, ecc.
A ciò si aggiunga che spesso si sentono giudizi sommari e poco avveduti che, ogni qualvolta una società estera realizza (o anche solo propone) un’importante acquisizione, evocano scenari apocalittici in cui “svendiamo i gioielli di famiglia” riducendoci a divenire una colonia dei nostri partner commerciali. Non di rado il semplice tuonare minacce da parte di uomini politici di primo piano, anche senza che fossero intraprese misure punitive, ha spinto i potenziali investitori esteri a lasciar perdere.
Insomma, per dirla eufemisticamente il cosiddetto business environment non è il più favorevole agli investimenti. Pertanto, in un mondo globalizzato, perché gli stranieri dovrebbero scegliere di investire proprio da noi?
Finora le risposte a questo problema da parte dei governi precedenti sono state inadeguate e a volte contraddittorie. Non basta creare agenzie volte alla promozione degli investimenti (qualche poltrona in più) e recarsi all’estero in delegazione (è solo immagine); occorre fornire risposte certe e modificare rapidamente le norme per creare un clima favorevole agli investimenti, altrimenti i road-show rischiano di divenire un “harakiri” perché evidenziano ancor più la nostra incapacità di realizzare ciò che abbiamo solennemente promesso.
Ebbene, il piano “Destinazione Italia” adottato in via provvisoria dal Consiglio dei Ministri nei giorni scorsi – che resterà aperto alla consultazione pubblica per tre settimane prima della sua definitiva approvazione – per la prima volta mostra una piena comprensione del problema. Non ci sono formule magiche o interventi di cesello che di per sé possano consentire di invertire questo trend a noi sfavorevole che ormai dura da anni. Per cambiare il clima occorre effettuare numerosi interventi, a tutti i livelli (politico, legislativo, amministrativo) e in molteplici settori. Solo dal complesso di questi interventi potranno sortire effetti positivi duraturi e di sistema. Qualunque diversa aspettativa sarebbe illusoria.
Su questa premessa, molto ben esplicitata, si fonda il piano presentato dal Consiglio dei Ministri. Esso prevede 50 misure che spaziano (i) dal fisco (accordi con le autorità fiscali per dare certezza sui tributi applicabili, riduzione della tassazione sul lavoro, rideterminazione delle sanzioni tributarie), (ii) al lavoro (redazione di un testo unico semplificato), (iii) alle autorizzazioni di concerto tra gli enti locali (riforma della conferenza dei servizi, procedure e modelli standard, cambi di destinazione d’uso per gli immobili), (iv) alla giustizia civile (rafforzamento del tribunale per le imprese, aumento degli interessi moratori per disincentivare il contenzioso pretestuoso), (v) all’energia (attuazione della strategia energetica nazionale per abbassare il prezzo dell’energia elettrica e del gas), (vi) alle privatizzazioni, (vii) al turismo, (viii) ai visti, ecc.
E’ chiaramente un piano innovativo per il suo approccio sistematico e illuminato per una larga parte delle proposte, con forse qualche leggerezza che potrà essere corretta in sede di attuazione e alcune azioni che forse, per la loro portata e dimensione, meriterebbero una discussione a sé. Viene da domandarsi se i partiti (troppo concentrati in questo momento sulle questioni interne) si siano effettivamente resi conto a pieno della potenziale portata rivoluzionaria di queste riforme e di quanto possano incidere sulle constituencies che fanno parte del proprio elettorato (es. concessionari delle spiagge, avvocati, amministratori locali, ecc.).
Eppure le prime reazioni al piano sono state di critica e scetticismo: c’è chi ha parlato di una bozza “troppo” ambiziosa e di “qualche sogno di troppo”, paventando una discriminazione alla rovescia a danno delle imprese italiane, chi di “fuffa” non lesinando critiche, anche condivisibili, a specifici punti del programma; chi ancora di progetto di “cartapesta” che indurrà una folta schiera di piccole e medie imprese italiane a spostarsi oltrefrontiera.
E’ vero che si tratta di un piano ambizioso, ma perché bocciarlo senza appelli solo perché pare irrealizzabile nel suo complesso? Dopotutto, se anche solo il 30% dei progetti ivi elencati venisse realizzato nei prossimi 12 mesi, l’Italia sarebbe un luogo diverso per lavorare e investire. Non tutte le proposte poi sono di lunga e complessa realizzazione (per esempio, i cosiddetti “tax agreements” per una fiscalità certa, il rafforzamento del tribunale per le imprese, le prime privatizzazioni e la liberalizzazione del mercato delle grandi locazioni possono essere deliberate in tempi brevi). Lo stesso governo, nel predisporre un crono-programma, ha individuato diverse tempistiche. A noi sembra che sia positivo che il Presidente del Consiglio, con i Ministri Zanonato e Bonino, ci abbia messo la faccia davanti al paese. Abbiamo per primi criticato Letta in questi mesi per la timidezza con la quale procedeva nell’opera riformatrice esortandolo a far valere la propria leadership. Ora che lo sta facendo con una serie di progetti innovativi di cui finora si era discusso solo in sede tecnica, ma mai in un documento di governo, non dovremmo nemmeno dargli il beneficio del dubbio?
Si badi poi che queste riforme non tornano solo a vantaggio degli investitori esteri perché contribuiscono in larga parte a cambiare il modo di fare impresa in Italia e dunque vanno a beneficio anche delle nostre piccole e medie imprese (per le quali peraltro sono previsti interventi specifici). Infine, vogliamo sottolineare che qui non si tratta del solito effetto annuncio – quando cioè si spaccia per effettuata una riforma, mentre mancano tutti i provvedimenti attuativi che forse non vedranno mai la luce. E’ chiaro fin dall’inizio che questo è solo un programma e dunque tutti ora ne attendono la realizzazione.
Ovviamente, siamo consapevoli che non basta avere scritto il programma. Sappiamo che il diavolo sta nei dettagli e dunque gli effetti dipenderanno in larga parte dai tempi e dalle modalità con le quali gli interventi saranno realizzati. In particolare, la storia anche recente ci ha insegnato che troppe buone idee sono naufragate sugli scogli dell’execution: prima di cantare vittoria bisogna che i provvedimenti giungano alla fine del loro iter e trovino piena efficacia. Aggiungiamo che sembra poco opportuno che la sua adozione sia anticipata dai preannunciati road-show all’estero. Meglio sarebbe avere realizzato le prime riforme e poi andare a illustrarle ai grandi investitori stranieri che badano solo ai fatti.
In conclusione, a nostro avviso, meglio sarebbe attendere il piano finale e nel frattempo attivarsi per migliorarlo. Una volta adottato, in via definitiva, la pressione dei commentatori potrà giustamente salire per monitorare i passi del governo esigendo che le promesse si materializzino nei tempi previsti. Dopotutto, come diceva La Rochefocauld “Promettiamo in base alle nostre speranze e manteniamo le promesse in base ai nostri timori”.
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro