Si possono coniugare estremismo e potere, purezza ideologica e governo? Questa domanda ci induce a rivisitare in modo organico le vicende, diverse ma simili, dei principali partiti della sinistra europea. Il tema ha da un lato una connotazione di “revisionismo storico” rispetto ai cambiamenti dell’ultimo ventennio (l’evoluzione della sinistra verso il mercato), ma dall’altro lato è anche una questione di strategia. Ci interroghiamo cioè su quali siano i reali obiettivi dei leader attualmente al potere. In questo, l’esperienza italiana del Pd renziano sembra scollarsi nettamente da quanto sta accadendo in altri paesi.
Non si tratta più solo della vittoria di Tsipras in Grecia a gennaio (riconfermata domenica scorsa), né dell’avanzata di una forza antisistema come Podemos in Spagna. In un certo senso, l’elezione di Jeremy Corbyn a capo del Labour Party rappresenta, simbolicamente e per la portata dell’evento, un vero e proprio spartiacque. Perfino l’Economist, che normalmente usa termini assai più misurati, è giunto a definirla “una grave sventura” per la Gran Bretagna. La vicenda di Corbyn, dunque, merita particolare attenzione, per le sue conseguenze anche al di fuori dei confini inglesi.
Per capire quali possano essere queste conseguenze, bisogna anzitutto guardare nel campo avverso. I Tory da un lato preconizzano scenari apocalittici (“una minaccia per la sicurezza nazionale ed economica”, ha twittato Cameron) e dall’altro ostentano un grande ottimismo per i propri futuri successi elettorali (“abbiamo la vittoria elettorale garantita anche nel 2020”). A sinistra, invece, si oscilla tra il senso di rivincita per il ritorno di una “sinistra sinistra”, proprio nel paese che più di tutti sembrava aver rotto con la “vecchia scuola” per abbracciare la Terza Via, e la preoccupazione dei labouristi più moderati di restare esclusi dalle stanze del potere ancora più a lungo.
E’ presto per dire come andranno realmente le cose. Al momento i segnali sono contrastanti. Corbyn – che sarà pure estremista ma è anche un politico esperto – ha subito lanciato segnali distensivi e di moderazione: per esempio garantendo che il Labour non giocherà nel campo degli euroscettici nel referendum sull’uscita dall’Unione, a dispetto delle sue precedenti posizioni anti-Bruxelles. Eppure, è indubbia la profondità della virata a sinistra tanto in politica interna quanto in quella estera (per quest’ultima con alcune prese di posizione contro Nato, Israele e USA che paiono difficili da concepire in un paese che ha storicamente fatto della “special reationship” con questi ultimi il perno della propria politica).
La questione che Corbyn si troverà ad affrontare è insomma quella tipica di tutti i leader che esprimono posizioni “forti”: radicalizzare il proprio messaggio per galvanizzare la propria tribù, oppure spostarsi verso il centro per vincere le elezioni? In altre parole: l’obiettivo è dare voce a una posizione estrema, oppure governare? Le due cose molto raramente coincidono. Che le elezioni si giochino al centro è del resto un fatto ben noto agli studiosi. Gli economisti lo chiamano “teorema dell’elettore mediano” e lo fanno risalire a un paper di Harold Hotelling addirittura del 1929.
Naturalmente vi sono eccezioni: l’ascesa di Margaret Thatcher nel 1979 ne è una clamorosa. Ma Thatcher deve la propria vittoria anche al contesto del tutto peculiare in cui si affermò. L’Inghilterra di allora era il “malato d’Europa”, e quella da lei proposta era l’unica terapia possibile, come i fatti avrebbero dimostrato. In un certo senso, e da posizioni opposte, Tsipras segue un percorso analogo: per un verso si è confermato come un leader indiscusso, ma per l’altro è dovuto venire a miti consigli con la Troika per evitare una disastrosa uscita dall’euro.
Oggi Corbyn parla a un paese molto diverso, che si è ripreso da una dura recessione e che viaggia con tassi di crescita sostenuti e bassa disoccupazione. Intendiamoci: tutto dipende dagli obiettivi del leader laburista. Se vuole prendere il posto di Cameron, dovrà risciacquare i suoi panni nel Tamigi, costruendo un non facile dialogo con l’ “elettore mediano” inglese. Se viceversa ha un obiettivo puramente ideologico, allora fa bene a prendere posizioni sempre più estreme, perché in tal modo contribuisce a spostare verso sinistra l’asse della discussione. Al tempo stesso, così contribuisce a fare dei conservatori il “partito della nazione”, un partito cioè che forse annacqua le sue posizioni, ma che occupando stabilmente il centro diventa pressoché imprescindibile dal punto di vista elettorale. Se questa fosse l’evoluzione del quadro politico britannico, a farne le spese non sarebbero solo gli elettori laburisti, che si vedrebbero relegati all’irrilevanza politica (pur potendo contare su un ampio spazio nel dibattito intellettuale). L’assenza di un’opposizione potenzialmente in grado di vincere farebbe male soprattutto a Cameron, perché farebbe venire meno quegli equilibri e contrappesi che fanno della democrazia “il peggior sistema di governo tranne tutti gli altri”.
Da questo punto di vista, l’Italia ha molto da imparare – e qualcosa da insegnare. Anche in casa nostra, infatti, la tentazione gruppettara è fortissima: ma non sempre sembra essere chiarissimo che tale tentazione è pressoché incompatibile con l’aspirazione al governo. Così come negli anni di Berlusconi è stata anche l’assenza di una sinistra con le carte in regola per vincere a determinare l’inefficacia dei suoi governi, oggi tale minaccia è ancora più forte. Infatti non solo la destra e il M5S non riescono a declinare una credibile offerta di governo, ma anche l’opposizione interna a Renzi pare più impegnata nella retorica del “pochi ma buoni (e perdenti)” che non nella costruzione di una reale alternativa. E, a lungo andare, tutto questo non può che riflettersi negativamente sull’efficacia dell’azione di governo. Renzi, in tutto questo, si sta muovendo esattamente come l’ “anti-Corbyn”: la sua strategia di governo è mossa dal pragmatismo, la sua azione come capo del Pd è invece orientata alla “cattura” di elettori tradizionalmente ostili alle forze del centrosinistra. Solo il tempo potrà dire se il suo sforzo avrà successo e quale strada sia più conveniente (e convincente) per le sinistre europee.
Di certo, il mito romantico del duro e puro, ancorché perdente ha prodotto molti danni. La politica è diversa dalle Olimpiadi: non basta partecipare, per cambiare il paese occorre vincere.
Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle