A pochi giorni dal 60° anniversario della firma dei Trattati di Roma si è riaperto il dibattito sul futuro dell’Ue. Gli sherpa del Consiglio europeo del 25 marzo sono al lavoro per limare il testo della dichiarazione conclusiva che negli auspici dovrebbe dare qualche indicazione sulla strada da seguire. Non è il caso di farsi soverchie illusioni: spesso queste commemorazioni si risolvono in retoriche enunciazioni di grandi obiettivi per lo più irraggiungibili. Si pensi ai nobili discorsi su immigrazione, crescita e sicurezza comune di Renzi, Hollande e Merkel al vertice di Ventotene di fine agosto. Per far sì che la discussione sia più concreta, la Commissione ha presentato un libro bianco con i cinque scenari possibili per l’Unione a 27 da qui al 2025. Per la verità, inizialmente pareva che Juncker avrebbe presentato un libro verde, con il quale la Commissione avrebbe più decisamente preso posizione, ma alla fine ha optato per un più modesto obiettivo limitandosi a illustrare le opzioni sul tavolo dei 27. Il libro bianco è abbastanza insoddisfacente nel merito delle soluzioni ipotizzate.
Primo scenario: avanti così. Nulla cambia e si continua sulla strada tracciata nel programma della Commissione Juncker e nel vertice di Bratislava. Ma è un’opzione? L’Unione sta frantumandosi non solo per effetto di eventi esogeni (Brexit, Trump, partiti populisti che condizionano quelli europeisti, pulsioni nazionaliste e antidemocratiche dell’est), ma per l’insoddisfazione per i modesti risultati dell’agenda Juncker. La politica dello struzzo non ha mai portato risultati.
Secondo scenario: solo il mercato interno. Implica una significativa riduzione delle ambizioni dell’Unione che si dovrebbe focalizzare solo sulla realizzazione del mercato interno. Sarebbe paradossale questa strada, voluta dal Regno Unito, dopo averla sdegnosamente rifiutata solo un anno fa causando la Brexit. L’Unione non avrebbe più l’opportunità di far sentire la propria voce in molti consessi internazionali, si indebolirebbe la convergenza in materia economica e monetaria e si finirebbe per ridurre l’ambito della regolazione ai profili solo commerciali.
Terzo scenario: chi vuole può fare di più. Un’Europa à la carte, come ipotizza la Merkel . Nulla di nuovo. L’espressione “Europa a due velocità” fu utilizzata nel 1975 nel rapporto Tindemans. Dal 1997 con il Trattato di Amsterdam si è ammessa la possibilità per un gruppo di Stati di procedere a un’integrazione differenziata con la cooperazione rafforzata. L’Europa a geometria variabile è la regola: Unione, eurozona, spazio di libertà, sicurezza, giustizia, Schengen, hanno già confini diversi. Con questo metodo potrebbero – dice Juncker – stabilirsi delle cooperazioni rafforzate in settori chiave come difesa, giustizia, fiscalità e diritti sociali. Ammesso che si riesca a coagulare il consenso di un numero sufficiente di Stati intorno a questi ambiziosi progetti, il timore è si crei un nucleo ristretto guidato dalla Germania. Non una Europa a geometria variabile, ma una spaccatura nord/sud che non può che essere dirompente.
Quarto scenario: fare meno meglio. È quello più innovativo che merita di essere esplorato. Si fa carico di rispondere alle istanze di molti cittadini e operatori europei che contestano eccessi di regolazione, che neppure il principio di sussidiarietà è riuscito a prevenire, chiedendo una rifocalizzazione delle priorità. L’Unione dovrebbe limitarsi a intervenire ove è necessaria un’azione collettiva (migrazione, sicurezza, reti transeuropee, commercio), abbandonando le velleità di disciplinare (o quantomeno armonizzare) i settori di competenza.
Quinto scenario: fare molto di più, tutti insieme. Non è che una pia illusione allo stato delle cose o forse – per darne una lettura politica – è una concessione di Juncker ai programmi federalisti del leader liberale Verhofstadt che alleandosi ai popolari, ha consentito l’elezione di Tajani al Parlamento europeo.
L’apporto del libro bianco in termini propositivi è modesto. Le opzioni evocate sono scontate e prevale soprattutto – o almeno così pare – il timore di indicare una strada suscettibile di mettere in difficoltà i capi di governo (a cominciare dalla Merkel) in quest’anno di elezioni. Più che il Presidente della Commissione che mostra ai leader europei la strada per uscire dalle secche, emerge qui il consumato politico che, in questi anni, ha accordato flessibilità (in primis all’Italia) tenendo conto più delle dinamiche politiche che delle regole scritte nel patto di stabilità. Questa era l’occasione per uno slancio da leader visionario. Però, se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare. Così, se l’è cavata con un compitino facile facile. Anzi, per dirla con il titolo di un bel film degli anni ’70, con “cinque pezzi facili”.
Alberto Saravalle