Per avere dei campioni europei bisogna annacquare la politica della concorrenza? La revisione delle regole che hanno consentito la progressiva integrazione dei mercati europei sembra ormai matura. La Commissaria alla Concorrenza, Margrethe Vestager, ha dato la sua disponibilità, dopo un vero e proprio fuoco di fila. Da tempo lo chiedono diversi governi – tra cui quello francese etedesco – e adesso si stanno muovendo anche le imprese: nelle scorse settimane, i capi di 21 aziende di telecomunicazioni hanno invocato una “politica industriale per la leadership digitale”. La stessa presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha fatto espressi richiami alla politica industriale nel suo discorso di fronte al Parlamento Ue. Il consenso è apparentemente molto vasto, ma rischia di fermarsi agli slogan: infatti, se molti ritengono obsoleta la competition policy europea, quando si tratta di indicare con chiarezza dove e come intervenire iniziano a manifestarsi le divisioni.
Questione politica
In realtà, si tratta di un dibattito solo apparentemente tecnico. La questione è soprattutto politica, e riguarda due temi cruciali: il ruolo dello Stato nell’economia, da un lato, e il rapporto tra l’Unione europea e gli Stati membri, dall’altro. La vera discussione, infatti, riguarda quello che adesso chiamiamo sovranismo o populismo e che, almeno per quanto concerne la politica economica, si è sempre chiamato nazionalismo economico. A livello dei singoli paesi, è in atto una forte tendenza a pretendere il ricupero di una parte della sovranità ceduta verticalmente (a Bruxelles) e orizzontalmente (ai mercati). Era inevitabile, allora, che questa spinta si traducesse in una simmetrica richiesta che sia l’Unione europea a giocare un ruolo più aggressivo sui mercati, costruendo a tavolino delle imprese in grado di competere sui mercati mondiali contro i colossi americani e cinesi. Purtroppo, questa retorica è in buona parte fuorviante.
Infatti, non c’è (quasi) nulla che impedisca alle imprese europee di crescere dimensionalmente, se sono effettivamente capaci di intercettare quote di mercato crescenti con la bontà dei loro prodotti. La realtà è che i campioni veri non si creano a tavolino. Non mancano esempi di campioni europei nati nella e dalla concorrenza: Fca (e potenzialmente Fca-Psa) non è il frutto dell’ingegneria dei Governi, ma il risultato della “selezione naturale” dei mercati. Ryanair e le altre low cost si sono imposte come attori globali perché hanno convinto i propri clienti, non i ministri dei Trasporti. Lo stesso vale per le tre maggiori compagnie europee nella classifica di Forbes – Shell, Volkswagen e Allianz. Altri attori potrebbero emergere nei settori in cui l’Europa è leader e che si stanno gradualmente aprendo al mercato. Uno è l’alta velocità, dove proprio l’Italia avrebbe molto da dire con Trenitalia e Ntv. L’una ha appena vinto la gara per l’alta velocità spagnola, l’altra rappresenta il primo caso di una società privata che, grazie all’apertura del mercato, riesce a imporsi in un ambito tradizionalmente dominato dai monopolisti pubblici.
Sponsor principali
I sostenitori di una politica industriale europea più assertiva citano spesso il diniego alla fusione tra Alstom e Siemens per dar vita al primo campione europeo dei sistemi ferroviari, con un fatturato complessivo attorno ai 15 miliardi di euro. Berlino e Parigi avevano esplicitamente caldeggiato l’operazione, vedendovi l’opportunità di ripetere l’esperienza di Airbus, considerata un caso di successo. Tuttavia, le condizioni poste da Bruxelles sono state giudicate troppo onerose dalle imprese coinvolte (oltre che dai Governi interessati), impedendo la nascita di un gigante europeo in grado di competere coi ben più grandi rivali cinesi e americani. Ma davvero la costruzione in vitro di un monopolista europeo avrebbe rafforzato l’economia europea? Nessuno potrà mai rispondere con certezza, perché il controfattuale non esiste: secondo le analisi effettuate, però, i costi (per i consumatori) sarebbero stati superiori ai benefici (per gli azionisti). La fusione avrebbe, infatti, portato a “prezzi più alti per i sistemi di segnalamento che garantiscono la sicurezza dei passeggeri per la nuova generazione di convogli ad alta velocità”. Per inciso, in questo caso, l’enforcement della politica della concorrenza ha tutelato non solo gli interessi dei consumatori, ma anche il nostro “interesse nazionale”: il trasporto per alta velocità è, come si è detto, una delle punte di diamante del nostro sistema industriale.
Questo ci porta a un punto cruciale: spostare il pendolo dalla tutela dei diritti dei consumatori (che viene condotta con metodologie consolidate, anche se ovviamente perfettibili) alla politica industriale (che riflette gli equilibri di forza politici) non ci dà alcun vantaggio. I paesi politicamente più fragili ed economicamente più frammentati rischiano di uscirne perdenti. Non sorprende che i principali sponsor della riforma della politica della concorrenza europea siano Francia e Germania. Al nostro paese, che ha la sua forza in una pluralità di “multinazionali tascabili” (anziché in poche grandi aziende), conviene contare sul fatto che, quali che siano i desiderata degli Stati più influenti e meglio organizzati, ci sia un giudice a Bruxelles.
Questo non significa che non vi siano spazi di miglioramento nella politica europea della concorrenza: i occorre però fare attenzione per non gettare il bambino con l’acqua sporca. Anche perché dopotutto il bambino sta crescendo bene, e l’acqua sporca tutto sommato è poca. Ci sono almeno due accorgimenti per farsi carico di buona parte delle obiezioni. Il primo è relativo alla definizione del mercato rilevante quando si valutano le concentrazioni. Per decidere se la fusione tra due (o più) imprese possa determinare effetti distorsivi della concorrenza, per esempio creando una situazione di monopolio, bisogna anzitutto identificare la dimensione geografica (e merceologica) del mercato rispetto al quale misurare le quote. Quando l’estensione dei mercati è globale, può essere fuorviante limitarsi a guardare i fatturati a livello europeo, o dare a questi ultimi un peso eccessivo. Al tempo stesso, la dimensione extra-europea dei mercati non può essere usata come alibi per restringere la libertà di scelta dei consumatori europei, come sarebbe verosimilmente accaduto con la fusione tra Alstom e Siemens. Insomma, per quanto si possa chiedere alla Commissione maggiore attenzione, non bisogna pensare che la natura dei problemi sia totalmente cambiata rispetto al passato.
Aiuti di Stato
Un secondo accorgimento riguarda la disciplina degli aiuti di Stato. Quello europeo è l’unico mercato europeo nel quale i Governi devono rispettare criteri rigorosi per erogare aiuti di Stato e nel quale, anzi, di norma questi sono vietati. Questa disposizione è stata essenziale per consentire di superare la dimensione nazionale dei mercati negli Stati membri, ed è tuttora una delle misure più innovative del diritto europeo. Ma rischia di sottovalutare gli effetti distorsivi della concorrenza che possono derivare dal fatto che imprese straniere, che competono con quelle europee dentro e fuori dal nostro mercato, possono a loro volta godere di varie forme di supporto da parte dei rispettivi governi. Cercare un modo per affrontare questa questione sarebbe un grande passo avanti non solo per le imprese europee, ma anche più in generale per la libertà d’impresa all’interno dell’Ue e nei paesi con cui intratteniamo rapporti commerciali.
La discussione sui campioni europei, in sintesi, prende le mosse da problemi reali, ma rischia di (ri)aprire il vaso di Pandora dello statalismo, che in questi decenni abbiamo faticosamente (e solo parzialmente) tappato. E’ giusto interrogarsi sempre su come migliorare le norme, ma bisogna stare attenti a non cedere alle sirene del nazionalismo che già troppe volte hanno trascinato a fondo la nostra economia (per non dire la nostra civiltà).
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro