Nei primi giorni alla Casa Bianca, Joe Biden ha firmato molti ordini esecutivi per rovesciare alcune tra le più controverse decisioni di Donald Trump, dall’immigrazione al clima. Ci sono, però alcuni settori nei quali dobbiamo attenderci continuità: per esempio la politica estera e commerciale. In quest’ultima, in particolare, Biden si sta dimostrando più trumpiano di Trump stesso. Il presidente ha infatti messo subito mano alle norme sul “Buy American”, che obbligano le amministrazioni pubbliche a dare la precedenza ai prodotti americani negli appalti, rafforzando quanto previsto dal suo predecessore. Non si tratta di una novità: la base giuridica per questa misura risale al 1933 e rappresenta l’eredità che Herbert Hoover ha voluto lasciare ai posteri nell’ultimo giorno di mandato. Colpisce però il vigore con cui Biden ha pubblicizzato la propria scelta – peraltro coerente con la campagna elettorale nella quale aveva accusato Trump di non aver fatto abbastanza.
Siamo dunque ben lontani dal ritorno alle politiche commerciali “liberiste” e multilaterali degli anni Novanta. Non sappiamo se Biden abbia preso questa posizione per convinzione o per opportunismo, ma nel complesso è poco rilevante. Il fatto è che l’ascesa del nazionalismo economico negli Usa non è un frutto avvelenato del trumpismo: è, semmai, l’albero dal quale il trumpismo è nato.
I provvedimenti a tutela dei prodotti americani non hanno generato alcun beneficio discernibile e, anzi, hanno probabilmente sortito effetti negativi, riducendo l’incentivo per le aziende americane a innovare e inducendo altri paesi a rifugiarsi in un analogo protezionismo degli appalti, a tutto danno dell’export americano stesso. Eppure, il clima politico è quello che è: con i democratici del Congresso sbilanciati a sinistra (nonostante il posizionamento centrista di Biden e Kamala Harris) e i repubblicani “trumpizzati”, probabilmente a Capitol Hill non c’è mai stata una maggioranza più schiacciante a favore del protezionismo.
Ciò nonostante la situazione è meno grave di quel che può apparire: a dispetto dei proclami e dei tentativi di perseguire una sorta di autarchia negli appalti pubblici, il presidente americano è limitato dalla rete di accordi internazionali sottoscritti nell’alveo della World Trade Organization. Gli Usa sono parte del Government Procurement Agreement, un accordo che impegna le parti (attualmente 48 Stati, di cui 27 appartenenti all’Unione europea) a garantire l’accesso agli appalti pubblici di dimensione rilevante. Questa, peraltro, è una delle ragioni per cui i vari proclami sul Buy American hanno avuto finora una portata tutto sommato contenuta: un’analisi del Government Accountability Office statunitense ha rivelato che i prodotti stranieri potenzialmente esposti alle restrizioni imposte dall’amministrazione Trump valevano appena il 5 per cento del totale nel 2017. Il rapporto con le organizzazioni internazionali (inclusa la Wto) sarà probabilmente uno dei contesti in cui si vedrà la differenza tra Trump e Biden: il primo non esitava a sfidarle (tirando troppo la corda), mentre è certo che il nuovo presidente ne sarà più rispettoso e cercherà piuttosto di muoversi all’interno delle regole.
Quali mosse possiamo dunque aspettarci ora da Bruxelles in risposta a questi primi accenni di continuità nelle politiche protezioniste d’oltreoceano, tutt’altro che rassicuranti? Anche di fronte a limitazioni significative, l’Ue farebbe bene ad alzare la voce in tutte le sedi, ma non avrebbe alcun vantaggio dal mettere in atto delle ritorsioni. Al momento, questa linea sembra prevalere. Il Commissario al commercio estero, Valdis Dombrovskis, per ora ha preso tempo: “dobbiamo capire di cosa si tratta prima di fare commenti nel merito, ma in generale ricordatevi che noi siamo a favore dell’apertura degli appalti ovunque nel mondo”. Infatti, da tempo l’Ue cerca un compromesso proprio su questi temi, e sembra che la presidenza di turno portoghese sia determinata a raggiungere l’obiettivo. L’accesso agli appalti pubblici, oltre tutto, era una componente importante del TTIP, il trattato di libero scambio transatlantico naufragato, del quale l’amministrazione Obama (di cui Biden era il vice) era convinta sponsor. Intendiamoci: è irrealistico immaginare un ritorno a quel tipo di negoziato, come ha avvertito la stessa Ursula von der Leyen e come i primi atti di Biden confermano, ma non è da escludere che si trovi un accordo più limitato su alcune delle partite più calde che oggi dividono Washington e Bruxelles.
E proprio su questo terreno, l’Italia può giocare un ruolo di primo piano: spetta a noi, infatti, la presidenza del G20. Oggi viviamo una fase segnata ovunque da restrizioni più o meno occulte al commercio, culminate nella pericolosa deriva del cosiddetto “nazionalismo vaccinale”, e da una crescente conflittualità tra i principali attori sulla scena (Cina e Stati Uniti in primis). Ma la ripresa degli scambi internazionali è imprescindibile. Restano grandi interrogativi su come sia possibile superare queste pulsioni protezionistiche nella fase post-Covid. Il G20, per la sua natura multilaterale, è la sede migliore in cui cominciare a disegnare il new normal che verrà, cercando di evitare la spaccatura tra i vari blocchi. Una pia illusione? Forse no: gli interessi di tutti convergono in questa direzione.