Guerra in Medio Oriente, la Russia invade un paese limitrofo, crisi energetica, tensioni con la Cina, l’integrazione europea in stallo, inflazione elevata. Sono i titoli dei giornali degli anni ’70 o di quelli odierni? La storia spesso si ripete, ma in questo caso le analogie sono davvero molte.
In effetti, ci stiamo avvitando in una spirale negativa comparabile a quella di allora. Conflitti armati e guerre economiche si susseguono e il rischio che queste ultime portino a ulteriori situazioni di belligeranza è grande. Nel frattempo, l’economia reale rallenta e gli alti tassi di interesse bruciano i risparmi dei cittadini e mettono in ginocchio le finanze dei paesi fortemente indebitati. Se ci troviamo nuovamente nello stesso pasticcio di allora, forse possiamo imparare qualcosa dal passato anche su come tirarcene fuori.
Cinquant’anni fa siamo riusciti grazie alle politiche di apertura dei mercati e integrazione economica, accompagnate da robuste cure a base di privatizzazioni, che diedero una forte spinta al processo di specializzazione delle economie e al commercio internazionale. E dove passano le merci è molto meno probabile che passino gli eserciti. Tra le tappe principali di questo processo ricordiamo le riforme introdotte da Deng Xiaoping dopo la morte di Mao, la perestroika in Unione Sovietica che ha gradualmente portato alla caduta del muro di Berlino, la progressiva estensione su base multilaterale degli accordi di libero scambio a partire dall’Uruguay Round, la creazione prima del mercato interno e quindi della moneta unica in Ue, l’adesione della Cina alla Wto.
Oggi però, dopo alcuni decenni di crescita economica senza confronti che ha sottratto alla povertà miliardi di persone, sembra di essere ritornati al punto di partenza. L’attuale contesto è in larga parte figlio delle tre crisi che si sono succedute nell’arco di quindici anni: quella finanziaria che ha accentuato le differenze economiche in Occidente, quella pandemica che ha mostrato la fragilità della nostra supply chain, e quella energetica aggravata dall’invasione russa in Ucraina. A ciò si aggiunga la trasformazione che, negli ultimi anni, hanno avuto i rapporti con la Cina, oggi percepita più come un competitor sistemico che come un partner commerciale.
Così le economie si stanno nuovamente chiudendo su se stesse e spirano venti di guerra. Fattori geopolitici condizionano sempre di più le scelte nazionali di politica economica e industriale. Tutto ciò sta portando a un crescente disaccoppiamento, più o meno accentuato (si parla, a seconda dei contesti, di decoupling, reshoring, derisking, friend shoring, ecc.), delle principali regioni dall’economia globale (Usa, Eu e Cina). L’opinione comune è che l’eccessiva interdipendenza renda le nostre economie fragili e ricattabili, che l’efficienza economica debba passare in secondo piano rispetto all’interesse nazionale, che la globalizzazione abbia solo prodotto guasti.
Il supporto a queste politiche è estremamente ampio. Del resto, è facile raccogliere consensi distribuendo soldi pubblici con slogan retorici come “proteggiamo le nostre aziende strategiche” e “garantiamo produzione e lavoro nei nostri stabilimenti”. Così l’Economist ha lanciato un grido d’allarme, chiedendosi se il libero mercato sia ormai storia passata. Il settimanale britannico ha ragione: questo mix di protezionismo in politica commerciale, interventismo in politica industriale e aiuti di stato, in barba alla politica di concorrenza, è difficile da sconfiggere per ora. Ma nel medio termine è certamente insostenibile sul piano economico.
Fino a quando le ingenti spese potranno essere interamente poste a carico dei già gravati bilanci pubblici? Già oggi a livello europeo ci si preoccupa dell’impatto dei debiti contratti per finanziare il programma Next Generation EU sul bilancio comune nei prossimi decenni e ci si domanda se davvero le riforme e gli investimenti concordati saranno in grado di alzare il potenziale di crescita del Pil come preventivato. Prima o poi risulterà evidente che la parallela battaglia in nome dell’autonomia strategica, in assenza di un adeguato budget dell’Unione, condanna i paesi con minore capacità fiscale a un ruolo residuale. Come possiamo, per esempio, competere efficacemente con la Germania per attrarre i grandi produttori americani di microchip in Italia? E lo stesso vale per transizione ecologica, trasformazione digitale e politiche di coesione. A suo modo, questa difficoltà traspare anche dalla Nadef. Se ne evince, infatti, la difficoltà del governo di trovare le risorse necessarie a perseguire la propria politica economica. Su una spesa complessiva di quasi 1.100 miliardi di euro, l’entità della manovra – cioè lo strumento attraverso cui l’esecutivo mette in atto il programma – è dell’ordine di 15-20 miliardi di euro, cioè meno del 2 per cento del totale. Si vorrebbe spendere e intervenire di più nell’economia, ma poi si è costretti a fare i conti con la realtà e ci si arrende di fronte all’indisponibilità dei denari. E questa situazione non riguarda solo l’Italia che pure, per le dimensioni del suo debito, rappresenta un caso estremo.
Ma c’è un altro grave problema da non sottovalutare: queste politiche determinano una forte conflittualità che interessa tutti i principali attori sulla scena mondiale. Gli Usa, per esempio, conducono una guerra senza quartiere per inibire alla Cina l’accesso ai chip più avanzati che sta danneggiando gli stessi produttori di semiconduttori statunitensi che hanno perso significative quote di mercato. Anche l’Ue si sta ponendo in rotta di collisione con la Cina: nelle ultime settimane ha avviato un’indagine sugli aiuti di stato cinesi ai veicoli elettrici e alle batterie e ne ha appena annunciato una sul settore dell’acciaio. Lo stesso accade tra Ue e Stati Uniti che sono sempre più ai ferri corti: la prima protesta per i sussidi erogati ai prodotti made in USA in base all’Inflation Reduction Act e per i dazi sull’acciaio e sull’alluminio introdotti da Trump; i secondi per il tentativo dell’Ue di tassare i colossi dell’economia digitale e il meccanismo di adeguamento delle emissioni importate (il c.d. Carbon Border Adjustment Mechanism), contro il quale peraltro sono insorti anche Cina, Brasile, Sudafrica e India. Potremmo continuare parlando dell’accesa competizione per l’approvvigionamento di terre rare e materie prime, per l’accesso alle fonti di energia e per il controllo del flusso dei dati. O, ancora, dei provvedimenti sempre più stringenti per limitare gli investimenti esteri (tipo il nostro Golden Power) e ora perfino per inibire ai propri investitori di partecipare al capitale di imprese costituite in paesi considerati ostili. Insomma, tutti sono in guerra con tutti.
Dalle guerre economiche ai conflitti militari il passo è breve. L’amministratore delegato di JP Morgan, Jamie Dimon, a margine della presentazione dei dati di bilancio del terzo trimestre, ha dichiarato nei giorni scorsi che questo è “il periodo più pericoloso che il mondo ha visto negli ultimi decenni”, mettendo in guardia contro la sommatoria di crisi e conflitti. È comprensibile: più i mercati sono chiusi e segmentati,carlo minori sono gli ostacoli per chi mira a entrare in conflitto con altri paesi. Per contro, la globalizzazione, rendendo gli Stati interdipendenti sul piano economico, li disincentiva all’uso della forza perché ciascuno fa conto sugli altri per soddisfare almeno in parte il proprio fabbisogno. Non è un caso che il processo di unificazione europeo – senza dubbio l’esempio di integrazione commerciale ed economica di maggior successo – abbia fatto leva sul libero commercio proprio come strumento per assicurare la pace in Europa ed evitare nuove guerre.
Ritorniamo allora ai fondamentali: mercato, concorrenza e libertà di iniziativa. Anziché interrogarci su come fare a rendere l’economia italiana o europea più autosufficiente (“autarchica”, che sarebbe il termine corretto, non va più di moda), domandiamoci come renderla più dinamica: le due cose non sono semplicemente inconciliabili, sono opposte.