La domanda a cui Giorgia Meloni dovrebbe rispondere non è se e quante risorse del Pnrr utilizzare, ma con quali obiettivi e per cambiare cosa. E’ molto positivo che, in queste ultime settimane, si sia aperta una discussione sui contenuti del Piano. Da un lato c’è chi, come Francesco Giavazzi, ritiene che il governo debba sforzarsi di rispettare tutti gli impegni per portare a casa l’intero finanziamento (circa 190 miliardi di euro) e stimolare in tal modo la crescita. Dall’altro, Tito Boeri e Roberto Perotti hanno argomentato che l’occasione andrebbe colta per rivedere criticamente la “lista della spesa”, concentrandosi sulle opere più utili e scartando quelle che sono il frutto di un mero esercizio di svuotamento dei cassetti ministeriali. Entrambe queste prospettive hanno delle buone ragioni da far valere. La realtà è che non esiste una scelta “giusta” perché l’impiego delle risorse è strettamente funzionale ai fini, economici e politici, che Palazzo Chigi intende perseguire. Pertanto, il confronto non dovrebbe concentrarsi sui soli investimenti: dovrebbe estendersi alla lista delle riforme che, tra l’altro, sono necessarie a sbloccare i fondi.
E’ legittimo che la premier abbia dei dubbi sul Pnrr. Sebbene una parte della sua maggioranza abbia partecipato alla fase conclusiva della redazione del piano – finalizzato da Mario Draghi ma inizialmente predisposto da Giuseppe Conte – il principale partito, Fratelli d’Italia, ha avuto ben poca voce in capitolo. Inoltre, le preoccupazioni sulla capacità di spesa nei tempi previsti sono ben fondate, almeno se prendiamo a riferimento i fondi strutturali europei: nel periodo 2014-2020, l’Italia ha speso solo 58 dei 94 miliardi di euro a cui aveva diritto. Ma, soprattutto, su alcuni temi Meloni ha da sempre una posizione critica.
Ciascuno di noi può pensare quello che vuole della concorrenza nell’assegnazione delle concessioni balneari – e noi siamo ovviamente favorevoli alle gare – ma non si può certo accusare le leader di Fdi di aver lasciato dubbi sulle sue posizioni in materia. Nel caso specifico la situazione è resa ulteriormente complessa dalle annose procedure di infrazione e, da ultimo, dalla decisione del Consiglio di Stato che ha sbarrato le strade a ulteriori proroghe. Ma lo stesso può dirsi di altri campi nei quali il nostro governo è, in qualche modo, vincolato ad attuare svogliatamente riforme che non condivide.
Il governo dovrebbe invece rendere esplicito il dibattito interno circa le riforme (e gli investimenti) che ritiene politicamente impraticabili. Anziché ostentare il rispetto formale di un impegno mentre lo si disattende nella sostanza – come si sta cercando di fare coi balneari – Palazzo Chigi dovrebbe incaricare il ministro Fitto di stilare una lista degli impegni politicamente sgraditi e di quantificarne gli impatti in termini di minori finanziamenti. Detto in altri, più espliciti, termini: qual è il “costo” della eventuale scelta di non dare corso a una specifica riforma? E’ su questo che Meloni dovrebbe fare le proprie valutazioni, mettendole poi di fronte al paese. Ma c’è un passaggio ulteriore, ancora più importante. Se ci sono riforme di fronte alle quali Meloni si trova in difficoltà, ve ne sono presumibilmente altre che possono intercettare i desiderata della maggioranza. Per stare ai provvedimenti previsti per il 2023, al di là del codice degli appalti, il governo dovrebbe proseguire con la giustizia e la pubblica amministrazione, adottare normative pro-concorrenziali, accelerare i tempi di pagamento della PA, e mettere mano alla scuola e alle semplificazioni, oltre che avviare una ricognizione e revisione della spesa pubblica. Davvero Meloni è contraria a tutto? Davvero non c’è nulla che possa intestarsi per qualificare non solo il dialogo con Bruxelles, ma anche l’azione del governo nei confronti degli elettori? E’ probabile che, per esempio, sulla concorrenza Giorgia Meloni sia in difficoltà. Ma in altri campi, quali la giustizia e la PA o la scuola, potrebbe avere qualcosa da dire. Se lo facesse sarebbe più forte nelle proprie rivendicazioni in Europa, perché non darebbe la sensazione di portare sempre un atteggiamento rivendicazionista, ma si presenterebbe al tavolo negoziale con una posizione più articolata. Soprattutto, poiché dietro a queste riforme si nascondono – almeno in principio – la qualità, la quantità e la modalità di erogazione dei servizi di cui cittadini e imprese fruiscono quotidianamente, potrebbe coniugare il Pnrr con la sua strategia politica e, in ultima analisi, dare un contributo alla crescita. Che è esattamente ciò a cui serve il Pnrr, sebbene vi sia spesso la tentazione di scambiarlo per un mero elenco di adempimenti necessari a mettere le mani sul pentolone delle risorse europee.