È la fine del mondo che conosciamo? L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha riportato la guerra ai nostri confini, rompendo l’illusione che, almeno in Europa, potessimo dare per scontata la pace perpetua. Adesso all’orizzonte si sta preparando un’altra guerra, per fortuna solo commerciale, ma non meno insidiosa: in ballo c’è la stabilità dell’ordine commerciale multilaterale che ha retto il mondo dalla firma degli accordi Gatt alla fine degli anni Quaranta. Questa volta il ruolo del prepotente di turno lo fanno gli Stati Uniti che, con alcuni recenti comportamenti, ne mettono in questione i principi fondamentali.
Tutto nasce dalla scelta del presidente Joe Biden di mantenere i dazi introdotti da Donald Trump sull’acciaio e l’alluminio nei confronti di Cina, Turchia, Norvegia e Svizzera. Gli Stati Uniti hanno risposto alle critiche sostenendo che era una questione di sicurezza nazionale che, come tale, ricadeva nell’eccezione stabilita dall’art. XXI del Trattato del Gatt del 1994. Per nulla convinti della difesa statunitense, i paesi colpiti dai dazi hanno fatto ricorso dinanzi all’apposito Panel dell’Organizzazione mondiale del Commercio (Omc). Gli Stati Uniti hanno contestato il diritto del Panel di entrare nel merito delle proprie difese, valutando cosa possa essere considerata una questione di sicurezza nazionale e cosa no. Tuttavia, sulla base di un precedente adottato in una controversia tra Russia e Ucraina, nei giorni scorsi il Panel si è pronunciato contro gli Usa. Fin qui, siamo nella fisiologia. L’aspetto patologico sta nel fatto che l’amministrazione Biden ha dichiarato che non ha alcuna intenzione di revocare i dazi incriminati, contestando così alla base il sistema giurisdizionale previsto dal Omc. Peraltro, già da tempo gli Stati Uniti tengono in scacco il funzionamento del sistema di soluzione delle controversie all’interno dell’Organizzazione, impedendo la nomina dei nuovi membri dell’Organo d’appello.
Al riguardo, Paul Krugman ha scritto un editoriale di fuoco sul New York Times sostenendo che questo comportamento, apertamente irrispettoso delle regole del multilateralismo, è nei fatti ben peggio dei capricci e delle sceneggiate di Trump perché così facendo gli Usa stanno incrinando le fondamenta dell’ordine economico mondiale. Analisi impeccabile, salvo che, nelle ultime quattro righe (con una licenza forse concessa ai soli premi Nobel), Krugman conclude che, nonostante tutto, Biden fa la cosa giusta perché, per quanto sia importante il Gatt, la democrazia e la salvezza del pianeta (che non si capisce in che modo dipendano dai dazi su acciaio e alluminio) sono più importanti.
Non è tutto. Gli Usa sono in conflitto anche con l’Unione europea. Non per i dazi trumpiani, per i quali Biden sta cercando un compromesso con Bruxelles, ma per i sussidi stabiliti dall’Inflation Reduction Act. Si tratta dell’imponente piano per 369 miliardi di dollari, fortemente voluto da Biden, per limitare l’inflazione, favorire la transizione ecologica (incrementando gli investimenti domestici in energia e industria manufatturiera) e ridurre le emissioni di CO2. Il fatto è che sotto questi obiettivi, del tutto legittimi, si nasconde un chiaro disegno protezionistico (ad esempio, solo le auto con componenti americane e made in Usa potranno beneficiare degli incentivi). Il che ha suscitato una forte reazione da parte dell’Ue (e soprattutto di Francia e Germania, le cui imprese nel settore automotive sarebbero maggiormente colpite). Fin qui i tentativi di trovare una soluzione a tavolino sono stati vani: anche perché sarebbe molto difficile per Biden tornare al Congresso con delle modifiche a quello che è stato il provvedimento bandiera della sua amministrazione, che probabilmente getterà le basi per la sua ricandidatura.
Così, nei giorni scorsi la Presidente della Commissione ha scritto agli Stati membri ipotizzando un allentamento della disciplina sugli aiuti di stato per consentire di rispondere “pan per focaccia”. Non solo, al Consiglio europeo si parla anche di istituire un Fondo europeo strategico per la sovranità europea. La politica dell’occhio per occhio può forse essere utile a guadagnare i titoloni sui giornali e a flettere i muscoli di fronte all’elettorato. Ci sono però ottime ragioni per evitare questa china.
Intanto, scelte politiche simili hanno conseguenze economiche: la “regionalizzazione” del mercato globale implica inevitabilmente una minore specializzazione del lavoro e, dunque, minore efficienza economica. Se la Cina esporta beni in America, gli Usa vendono altri beni all’Europa, e l’Europa commercia altri beni ancora con la Cina è perché le imprese di ciascuna di queste aree sfruttano i rispettivi vantaggi comparati. Se, viceversa, ognuno persegue l’autosufficienza, inevitabilmente ciò significa che a livello collettivo si dovrà rinunciare a una migliore allocazione dei fattori, e dunque dovremo rassegnarci a un mondo caratterizzato da minori tassi di crescita.
Ma c’è un argomento ancora più importante. I fatti successivi alla Seconda guerra mondiale dimostrano la lungimiranza dei padri fondatori dell’Europa, i quali capirono che per raggiungere un fine politico (la pace) era necessario utilizzare strumenti economici (il commercio). A contrario, questa è anche la ragione per cui le sanzioni contro la Russia sono così dolorose per Mosca: espellere un paese dall’ordine globale fa istantaneamente venire meno gli immensi vantaggi derivanti dalla partecipazione alla globalizzazione. Se però sono i diversi blocchi geopolitici a elevare delle muraglie ai propri confini, non solo nel nome di un’esplicita politica di sovranità (chiamarla autarchia è forse desueto ma non fuori luogo), allora si va verso un mondo in cui i legami di ciascuno con tutti gli altri diventano più tenui. A maggior ragione questo è vero se, parallelamente, si mette in discussione il guardiano dell’ordine commerciale globale, cioè l’Omc, e con esso si toglie legittimità alle fondamenta giuridiche di tale ordine.
La storia ci insegna quanto sia pericoloso imboccare un simile sentiero. Come europei non possiamo impedire a Biden di sacrificare l’interesse collettivo ai suoi calcoli di bottega. Ma non dovremmo seguirne l’esempio.