Che ne sarà del Pnrr? Il Piano, da cui dipende l’erogazione di circa 190 miliardi di euro (69 a fondo perduto e 122 di prestiti), prevede l’attuazione di riforme e investimenti, con un preciso cronoprogramma che deve completarsi entro il 2026. L’erogazione dei fondi è condizionata al raggiungimento di “traguardi” che denotano risultati qualitativi e “obiettivi” per indicare i risultati quantitativi.
I pagamenti sono su base semestrale, previa verifica del rispetto degli impegni assunti nel piano approvato dal Consiglio. Per consentire ciò, l’Italia ha concluso un accordo operativo che dispone incontri trimestrali, scambi di informazioni e accesso ai dati. Un corposo allegato specifica i singoli obiettivi e traguardi, indicando il meccanismo per verificarne l’attuazione.
L’Italia ha finora ottenuto un prefinanziamento di 24,9 miliardi di euro ad agosto 2021 e 21 miliardi di euro (al netto del rimborso di 3,1 miliardi per il prefinanziamento) ad aprile 2022. Secondo la Commissione abbiamo centrato tutte le scadenze e gli obiettivi previsti. Il 29 giugno abbiamo presentato una richiesta per la seconda rata di 21 miliardi per i 45 impegni del primo semestre (44 traguardi e 1 obiettivo). Più passa il tempo più le cose si complicano: diminuiscono i traguardi e aumentano gli obiettivi. Nel semestre in corso, per esempio, vi sono 39 traguardi e 16 obiettivi (assunzioni, erogazioni di fondi, aumento del gettito, ecc.). C’è dunque meno margine per valutazioni discrezionali.
La procedura prevede una valutazione preliminare delle Commissione, il parere del Comitato economico e sociale e, infine, una decisione che autorizzi l’erogazione dei fondi. Qualora tuttavia uno Stato ritenga che vi siano “gravi scostamenti” dal conseguimento dei traguardi e degli obiettivi può eccezionalmente attivare il “freno di emergenza” chiedendo che della questione sia investito il Consiglio europeo. Nel frattempo, il pagamento è sospeso. Non si tratta, dunque, solo di una questione risolvibile tra uffici tecnici. Gli Stati possono intervenire e in questo caso sopravvengono inevitabilmente considerazioni politiche.
Se la Commissione non è persuasa può sospendere, in tutto o in parte, l’erogazione dei fondi. Lo Stato potrà presentare le proprie osservazioni per ottenere la revoca della sospensiva. Se le misure necessarie non vengono adottate entro sei mesi, i fondi vengono ridotti proporzionalmente. In concreto, questo significa che il governo uscente e il prossimo dovranno assumere decisioni cruciali. Per esempio, è ormai scontata l’approvazione della legge per la concorrenza, ma la sua attuazione richiede di prendere posizione su materie scottanti come la riforma dei balneari e dei servizi pubblici locali. Se le deleghe non saranno attuate, la rata potrà essere decurtata o addirittura saltare. Ma anche se le deleghe fossero esercitate in modo troppo timido si rischia molto. Il Pnrr prevede una legge annuale per la concorrenza ogni anno, da qui al 2026. Come reagirà la Commissione, se l’opera di liberalizzazione dell’economia si limitasse a quanto già approvato?
Nei prossimi mesi scopriremo qual è il vero valore (economico) che i vincitori delle elezioni attribuiranno alla difesa delle rendite: proteggere i privilegi dei tassisti e delle altre corporazioni vale così tanto da rinunciare al più vasto piano di trasferimenti infra-europei mai varato, di cui l’Italia è di gran lunga il maggior beneficiario? E le istituzioni europee avranno la forza di bloccare i fondi se il nostro paese non rispetterà gli impegni politicamente più sensibili? La questione è aperta, ma sembra che il vecchio detto mala tempora currunt sed peiora parantur sia particolarmente azzeccato