Per molti anni – già ben prima dello scoppio della crisi finanziaria e dei debiti sovrani – abbiamo sentito solo critiche nei confronti del Patto di Stabilità e Crescita (PSC) e delle altre regole di sorveglianza multilaterale volte ad assicurare che i Paesi dell’Unione europea mantengano una disciplina di bilancio anche dopo l’introduzione della moneta unica. Si pensi, in particolare, ai due noti parametri, fissati dal Trattato di Maastricht, che impongono limiti al deficit e al debito (rispettivamente il 3% e il 60% del Pil). Si è detto che tali regole sono inique, troppo rigide, tortuose al punto da essere incomprensibili, pro-cicliche, politicizzate e che non tengono conto delle esigenze di crescita; una volta fu perfino autorevolmente detto che sono “stupide”. Ebbene, oggi finalmente abbiamo l’opportunità di cambiarle. Non possiamo lasciarcela sfuggire.
Dopo alcuni anni in cui ovunque in Europa sembrava prevalere un forte sentiment antieuropeo, si sta imponendo, infatti, una diversa narrazione dell’Ue che consente di ben sperare. La risposta delle istituzioni alla crisi pandemica è stata efficace, tempestiva e per certi versi molto innovativa. In estrema sintesi, si è deciso di sospendere il PSC, consentendo così agli Stati membri di mantenere un elevato disavanzo per contrastare gli effetti recessivi della pandemia; è stata creata una funzione di stabilizzazione a supporto dell’occupazione e soprattutto è stato attivato il programma Next Generation EU (NGEU) – che presuppone nuove risorse proprie e debito comune garantito dal bilancio dell’Ue – per concedere prestiti e finanziamenti a fondo perduto agli Stati membri in funzione delle loro effettive necessità (non delle quote di partecipazione al bilancio).
Al tempo stesso è stata lanciata la Conferenza sul futuro dell’Europa (CoFoE) per coinvolgere i cittadini europei, sollecitando una discussione e proposte concrete. È una nuova prospettiva (bottom–up) perché per la prima volta i cittadini vengono consultati ex ante e non solo a cose fatte, come è invece accaduto nei referendum che talora hanno bloccato o ritardato i progressi nell’integrazione europea. Dopo alcune esitazioni iniziali per definirne la governance, la CoFoE nei mesi scorsi è entrata nel vivo, coinvolgendo cittadini europei, istituzioni e Stati membri. Tra i temi di maggior rilievo affrontati vi sono inevitabilmente quelli economici e sociali. Uno dei quattro panel di cittadini diretti a formulare raccomandazioni si occupa di un ambito assai importante e ampio: “Economia più forte, giustizia sociale, posti di lavoro, educazione, cultura, sport, trasformazione digitale”. I lavori della CoFoE stanno ora volgendo al termine. Fino a poche settimane fa – nonostante gli sforzi profusi dagli Stati membri per coinvolgere società civile, corpi intermedi, istituzioni nazionali – sembrava un esercizio senza molte speranze di conseguenze sul piano pratico. Vi era, infatti, poco “appetito” da parte degli Stati per modifiche dei Trattati. Una procedura troppo lunga, complessa e che presuppone l’accordo di tutti. Ma senza modifiche, i progressi che si possono fare sono assai limitati.
La guerra in Ucraina ha cambiato la prospettiva. Improvvisamente ci siamo resi conto che senza una maggiore integrazione non saremo in grado di affrontare in modo efficace molte emergenze non solo sul piano sanitario (come già ci aveva insegnato la pandemia), ma anche umanitario, energetico, e della difesa. E soprattutto ci ha fatto riflettere sugli imponenti investimenti che si renderanno necessari per fronteggiare queste difficili sfide. Investimenti che i bilanci nazionali, già onerati dalle spese per sostenere le proprie economie in due anni di crisi, difficilmente saranno in grado di sostenere. Si pensi che ormai la media del rapporto debito/Pil dovrebbe attestarsi nel 2021 intorno al 99,5% (a fronte di un parametro del 60% secondo il Trattato sul Funzionamento dell’Ue e il Fiscal Compact).
È allora il momento per mettere in cantiere delle modifiche che non siano solo cosmetiche, ma che consentano di fare degli effettivi passi avanti nella realizzazione dell’Unione Economica e Monetaria. Quest’ultima è, in effetti, rimasta una costruzione incompleta perché alla politica monetaria, divenuta competenza esclusiva, non si accompagna alcuna capacità tale da consentire all’Ue di svolgere un’autonoma politica economica e fiscale, nell’ambito delle proprie competenze, e intervenire in caso di squilibri congiunturali. Oggi pare del tutto ragionevole attendersi che determinati beni comuni europei (inerenti ad esempio la difesa, la transizione ecologica e le migrazioni) siano finanziati, almeno in parte, con fondi europei, e che della quota di investimenti restante a carico degli Stati non si tenga conto ai fini del rispetto dei vincoli di bilancio. Il meccanismo del NGEU è insomma replicabile con juicio.
Per quanto attiene poi alle regole su disavanzo, debito e squilibri macroeconomici, diverse proposte sono già state avanzate da autorevoli esperti e istituzioni in risposta a una consultazione aperta nei mesi scorsi dalla Commissione europea. C’è chi ha suggerito di semplificare le regole focalizzandosi solo sul debito (con obiettivi diversi per i vari Stati), chi vorrebbe abbandonare le regole rigide a favore di standard flessibili, chi propone di innalzare il valore di riferimento debito/Pil dal 60 al 100% e chi, infine ha caldeggiato il trasferimento di una parte del debito nazionale (accumulato durante la pandemia) a un’Agenzia europea per la gestione del debito, cui si accompagnerebbe una revisione delle regole fiscali basata su una limitazione del debito a medio termine (differenziata in funzione di diversi parametri). Se una di queste soluzioni prevarrà o altre ne verranno presentate dalla Commissione, ancora è difficile da prevedere. Ma – riprendendo un celebre titolo in prima pagina di un quotidiano durante la crisi finanziaria nel 2011 – “fate presto”. L’Europa non può attendere.