Cosa rimane del sovranismo dopo la crisi del Covid-19? A un’occhiata superficiale, ben poco: i partiti sovranisti non sembrano più dettare l’agenda del dibattito politico. Tuttavia, la loro influenza non è scomparsa: anzi, in qualche modo il nazionalismo economico ha contagiato anche le forze politiche tradizionali, trovando poi nella pandemia un immenso amplificatore. Che le politiche assunte nel pieno dell’emergenza avessero un’ impronta sovranista era, in qualche modo, da mettere in conto: la vera domanda è se, come e in quanto tempo si tornerà alla “normalità”.
Il declino dei sovranisti, in realtà, sembrava in atto da tempo: alle elezioni europee del 2019, i movimenti anti-sistema – che si temeva avrebbero fatto il jackpot – hanno ottenuto un’affermazione consistente, ma insufficiente a esercitare quel potere di blocco a cui auspicavano. Secondo l’Authoritarian Populism Index del think tank svedese Timbro, le forze sovraniste hanno raccolto nel 2019 quasi un quarto dei voti per il Parlamento europeo – tra l’altro completando un rovesciamento che ha visto i populisti di destra, tradizionalmente minoritari, prendere il sopravvento su quelli di sinistra.[1] Ciò nonostante, a Bruxelles si è insediata Ursula von der Leyen, sostenuta dalla stessa maggioranza bipartisan che da diverse legislature esprime l’esecutivo comunitario. A Washington Joe Biden ha espugnato la Casa Bianca ottenendo il maggior numero di voti nella storia americana. E lo stesso partito repubblicano, pure ancora fortemente condizionato da Donald Trump, pare finalmente dare segni di insofferenza verso l’esperienza del 2016-2020.
Eppure, i sovranisti hanno avuto un indubbio successo sul piano culturale, contribuendo ad attirare gli avversari sul loro terreno di gioco. Non si tratta di un successo soltanto retorico. In Europa, le istituzioni dell’Unione hanno dimostrato di sapersi trasformare e reagire in modo efficace alla pandemia, ma contemporaneamente hanno anche interiorizzato molte delle richieste e delle parole d’ordine dei sovranisti. Ne sono esempi il cedimento diffuso alle logiche dello Stato imprenditore (per esempio nel modo in cui vengono declinati taluni impegni verso la neutralità climatica) e un certo protezionismo che si legge in trasparenza nelle proposte di regolamentazione dell’economia digitale. Al di là dell’Oceano, il presidente democratico ha inaugurato il suo mandato rilanciando le norme sul “buy American”, addirittura accusando il suo predecessore di non aver fatto abbastanza.
Queste tendenze vanno analizzate tenendo conto di una dimensione di lungo periodo, legata alle evoluzioni profonde delle preferenze politiche e sociali degli elettori e dei leader, e una di breve periodo, che ovviamente deriva dalla pandemia.
Un modo per guardare alla questione – o, quanto meno, ai suoi effetti – è concentrarsi sull’andamento degli investimenti esteri (FDI). Se rapportati al Pil, nei paesi del G20 sono su una traiettoria discendente almeno dalla crisi economica e finanziaria dello scorso decennio. Dal picco del 2007, quando gli FDI sfioravano il 6 per cento del Pil globale e superavano il 20 per cento del totale degli investimenti, siamo scesi a livelli di circa la metà dopo il 2010 per arrivare a valori sotto il 2 per cento dal 2018 e l’1 per cento nel 2020. Un altro dato interessante è il ripiegare degli investimenti dei fondi sovrani sui propri paesi: fenomeno ascrivibile in parte agli ostacoli che incontrano all’estero e in parte alle pressioni dei rispettivi governi per favorire la ripresa dopo la pandemia. Ovviamente la riduzione degli FDI ha molte cause. Sarebbe ingenuo ridurlo alle sole scelte politiche dei governi o all’ideologia delle relative maggioranze. Sarebbe, però, altrettanto ingenuo ignorare questi fatti: anche perché essi si sono tradotti in precisi indirizzi normativi, che sono poi esplosi con l’arrivo del coronavirus.
Per esempio, su un totale di 762 interventi relativi ai settori medico-sanitari collegati al Covid (censiti da Global Trade Alert), solo 11 erano finalizzati a promuovere gli FDI mentre 23 erano esplicitamente diretti a scoraggiare o impedire investimenti esteri e 77 a restringere la libertà di localizzazione degli stabilimenti produttivi.[2] A tali interventi si è aggiunto un forte incremento sia dei provvedimenti normativi per il controllo degli investimenti (esteri), sia del loro concreto utilizzo, sia del numero di operazioni annunciate e poi bloccate dall’intervento dei governi. E questo è un fenomeno osservabile a livello globale, senza particolari distinzioni tra paesi o regioni.
Vediamo ora, più nel dettaglio, come l’Ue e i principali paesi europei hanno tradotto in pratica questo nuovo Zeitgeist. Cercheremo poi, da queste esperienze specifiche, di estrarre qualche considerazione più ampia.
La tentazione dell’Europa sovrana
In generale, l’approccio alle relazioni internazionali sul piano economico dell’Ue è cambiato significativamente in questi anni. Tanto per cominciare, la stessa Presidente von der Leyen, al momento del suo insediamento, ha voluto enfatizzare la natura geopolitica della Commissione esplicitando la ferma intenzione di affermare la sovranità europea in materia di tecnologia. Per esempio, la strategia adottata dall’Ue per il settore digitale prevede che la produzione europea di semiconduttori passi entro il 2030 dal 10 al 20 per cento della quota mondiale. In campo ambientale, le politiche di decarbonizzazione sfumano spesso nella politica industriale: si pensi agli investimenti pubblici nelle batterie e negli elettrolizzatori e all’aspirazione a usare gli obiettivi del piano “Fit for 55” per far crescere l’industria europea. Ma non si tratta solo di questo. L’Ue sta anche cercando di rafforzare il ruolo internazionale della propria valuta, aumentando la negoziazione di titoli di debito e altri strumenti finanziari denominati in euro, rafforzando le infrastrutture dei propri mercati finanziari e migliorando l’attuazione e l’applicazione dei regimi sanzionatori dell’Ue. E ancora: l’Unione fa valere sempre più spesso la propria capacità regolatoria, imponendo standard stringenti e significativi oneri economici alle imprese straniere che vogliono avere accesso al mercato unico (si parla al riguardo di Brussels Effect, dal titolo di un bel libro di Anu Bradford[3]) e così, di fatto, imponendo le proprie preferenze normative.
Per quanto attiene poi agli investimenti esteri – specie quelli cinesi, la principale fonte di preoccupazioni oggi – è stato istituito un meccanismo che, pur lasciando il potere di veto ai singoli paesi, obbliga gli stati membri a coordinarsi e consente anche alla Commissione di far sentire la propria voce (regolamento (UE) 2019/452). Il mutato approccio di Bruxelles verso gli FDI si evince anche da una comunicazione emanata il 26 marzo 2020, durante la pandemia, con la quale la Commissione ha sollecitato gli Stati che ancora non avevano leggi in materia a dotarsi al più presto di una normativa sul controllo degli investimenti da paesi extra europei. Vi si afferma, inoltre, che tali restrizioni possono giustificarsi non solo con i tradizionali motivi di ordine pubblico e sicurezza nazionale, ma anche con obiettivi di politica sociale, stabilità del sistema finanziario e tutela dei consumatori. Un significativo ampliamento delle motivazioni che possono sottendere queste normative.
Al quadro europeo per il controllo degli investimenti diretti si è poi di recente aggiunta una proposta di regolamento sulle distorsioni nel mercato unico causate da sovvenzioni estere applicabile alle operazioni di fusione e acquisizione, agli appalti pubblici e ad altre ipotesi (investimenti greenfield, per delocalizzare la produzione, concentrazioni e appalti sotto soglia). E’ evidente che questa disciplina nasce con finalità geopolitiche prima ancora che economiche: l’obiettivo sotteso è infatti di frenare l’espansionismo economico della Cina. Il problema è che sarà molto difficile ottenere informazioni affidabili sui sussidi occulti erogati da quello Stato. E dunque il rischio è che il nuovo provvedimento si riveli inefficace a contrastare la concorrenza sleale delle imprese di stato cinese e finisca piuttosto per prendere di mira imprese provenienti dagli Usa o altri Stati terzi.
Infine, le sempre più pressanti richieste degli Stati membri (Francia e Germania in testa) di introdurre valutazioni di politica industriale nel giudizio di compatibilità delle concentrazioni, sono suscettibili di comportare prima o poi un revirement nella politica di concorrenza. Il refrain è sempre lo stesso e trova un crescente numero di sostenitori: dobbiamo proteggere le imprese europee dalla concorrenza internazionale e favorire la crescita di campioni europei in grado di competere con le grandi società statunitensi e cinesi.
I controlli sugli investimenti esteri
Parallelamente, sul piano del diritto interno, abbiamo assistito a un florilegio di leggi che, in modo più o meno esplicito, vogliono proteggere le imprese nazionali dalle acquisizioni straniere. Anche normative come quella italiana che attribuisce poteri speciali al governo (il cosiddetto Golden Power), inizialmente applicabili a chiunque volesse acquistare un attivo strategico, sono divenute sempre più chiaramente uno strumento per controllare il mercato, condizionare gli operatori e impedire operazioni dall’estero sgradite. Nell’arco di pochi anni, infatti, sono intervenute numerose modifiche che ne hanno significativamente ampliato l’ambito, estendendolo a nuovi ampi settori economici (anziché riferirsi a singoli e tassativi attivi strategici), includendovi operazioni di minoranza o relative a PMI, applicandola a operatori di paesi terzi anche se stabiliti nell’Ue e (temporaneamente) anche ad acquirenti provenienti da altri Stati membri. Così, uno strumento avente natura eccezionale – esercitabile solo qualora sussistano motivi imperativi di interesse generale espressamente codificati e che possono essere ricondotti all’esigenza di assicurare l’erogazione di servizi essenziali e la protezione di interessi fondamentali quali la sicurezza e l’ordine pubblico – è divenuto via via applicabile alla generalità dei casi con evidenti intenti protezionistici o di politica industriale. Tant’è che oggi può essere invocato perfino per assicurare il mantenimento dei livelli occupazionali e della produttività nel territorio nazionale.
Il fenomeno, però, non è limitato al nostro paese: in tutti i paesi europei i poteri dello Stato nel controllo degli investimenti esteri sono stati resi assai più incisivi. In Germania, in aprile è stata modificata per la diciassettesima volta la normativa (ovviamente sempre in senso sempre più rigoroso), in Regno Unito (che tradizionalmente rivendicava un approccio liberale alla materia) è stato adottato quest’anno il National Security & Investment Act che ha introdotto obblighi di notifica per le acquisizioni in ben diciassette settori, e anche in Spagna la consolidata politica di apertura di apertura gli investimenti esteri è stata ormai abbandonata. La Francia non è stata da meno: anzi, mentre le autorità nazionali degli altri paesi sono per lo più intervenute per bloccare investimenti cinesi, il governo francese è intervenuto in alcune operazioni che coinvolgevano imprese provenienti da paesi tradizionalmente alleati. Per esempio, l’accordo tra il gruppo canadese Couche Tard e la catena di supermercati Carrefour è sfumato dopo alcune dichiarazioni del ministro dell’economia Bruno Le Maire che ha fatto riferimento alla necessità di salvaguardare la “sovranità alimentare”. E’ stato poi posto il veto all’acquisizione della Photonis (leader nelle tecnologia dei sensori notturni per uso militare) da parte della società statunitense Teledyne. E ancora, dinanzi alla minaccia dell’amministrazione Trump di applicare dazi sui prodotti di lusso francesi, il governo è intervenuto cercando di indurre il gruppo LVMH a postergare (o rinunciare a) l’acquisizione di Tiffany.
A queste leggi, che hanno esplicitamente l’obiettivo di controllare gli investimenti esteri, devono poi aggiungersi molteplici norme di diritto societario, asseritamente volte a tutelare il mercato, che sottendono però malcelati intenti protezionistici, cercando di favorire gli azionisti di controllo da tentativi di acquisizione ostile. Basti pensare, alla norma “antiscorrerie” che impone agli acquirenti di partecipazioni particolarmente rilevanti nel capitale votante di società quotate italiane di dichiarare gli obiettivi perseguiti con l’acquisizione, all’affievolimento della “passivity rule” per consentire alle società sotto OPA di porre in essere manovre difensive, alla riduzione della soglia che fa scattare l’OPA per talune società, alle azioni a voto maggiorato e plurimo, ecc. Disposizioni spesso concepite per intervenire in casi concreti a difesa delle imprese italiane, limitandone la contendibilità in situazioni di elevato grado di volatilità dei corsi azionari e di disallineamento tra i prezzi di mercato e i valori fondamentali.
Una nuova normalità statalista
Guardare alle normative che, direttamente o indirettamente, vogliono controllare gli investimenti esteri è utile per intercettare e mettere a fuoco dei trend di più ampio respiro. In questo senso, la disciplina degli investimenti esteri è l’equivalente del canarino nella miniera. L’atteggiamento nei confronti degli FDI dice infatti molto sia sul piano politico sia su quello operativo.
Sul primo, tradisce l’atteggiamento nei confronti del mercato e della globalizzazione: una strategia finalizzata a individuare gli asset veramente strategici, senza impicciarsi delle operazioni che coinvolgono la stragrande maggioranza delle imprese, è sintomatica di una maggiore apertura. Viceversa, norme vaghe e potenzialmente applicabili anche a imprese che, per la ridotta dimensione o per i settori in cui operano, non presentano alcun rilevante profilo di sicurezza nazionale mostrano una generale sfiducia verso il mercato come strumento di allocazione dei fattori.
Sul piano operativo, le scelte normative dicono invece molto sul ruolo che si attribuisce allo Stato e ai suoi organi. Infatti, più le norme sono vaghe, più esse determinano un effettivo potere di veto e una vasta discrezionalità in capo agli organismi tecnici e politici incaricati di pronunciarsi sulle diverse operazioni societarie. E, quindi, consentono una maggiore pervasività dell’intervento pubblico anche al di là delle intenzioni dichiarate o della loro stessa lettera, in quanto fanno sì che le imprese – quanto meno quelle di più grandi dimensioni – debbano acquisire il placet della politica prima di mettere in atto le proprie strategie.
I sovranisti possono aver perso (per ora) la battaglia politica, ma hanno segnato punti importanti nella battaglia delle idee. Naturalmente, queste riflessioni devono fare anche i conti con l’esperienza della pandemia. La crisi del coronavirus, specie nei primi mesi del 2020, ha creato enorme incertezza e ha colpito duramente i valori degli asset, mettendo in difficoltà le imprese ed esponendole al rischio di scalate ostili. Era del tutto naturale e comprensibile, in quel contesto, che fossero adottate misure di natura emergenziale, finalizzate sia a fornire (in varie forme) sostegno economico e finanziario alle imprese, sia a prevenire possibili takeover, magari da parte di soggetti esteri e legati ai governi di paesi non democratici. Tutto ciò si è tradotto nella sospensione de facto della disciplina degli aiuti di Stato, nell’ingresso diretto e indiretto dei governi nel capitale di molte imprese, e appunto nel potenziamento delle norme per lo screening degli investimenti esteri, oltre che in una pluralità di misure per favorire il reshoring di alcune produzioni e aumentare l’autosufficienza produttiva dei paesi europei.
La realtà, però, è che queste fantomatiche scalate ostili non ci sono state in questi mesi (o sono comunque state assai limitate), ma è rimasto un impianto normativo che attribuisce ampissimi poteri di intervento ai governi. E – a quasi due anni dall’inizio della pandemia – le scadenza per il phase out delle misure emergenziali sono state e vengono progressivamente rinviate. Tanto che, in molti casi, si ha la sensazione che almeno in parte esse entreranno a far parte dell’ordinamento, o comunque continueranno a persistere – nell’applicazione e negli effetti – per un periodo molto più lungo rispetto a quello originariamente dichiarato. Queste misure continuano a trovare una giustificazione teorica proprio nella credenza tipicamente sovranista che le imprese estere siano sempre e solo portatrici di interessi geopolitici, e che la crescita del paese possa essere garantita solo dall’esercizio assertivo della sovranità nazionale. Peraltro, senza mai fare, in questo ragionamento, alcuna distinzione tra imprese private e pubbliche o tra paesi di provenienza a noi legati da vincoli di amicizia e comunanza di interessi o, viceversa, estranei alla tradizione della democrazia liberale.
Se ciò è vero, allora non si può negare che i sovranisti abbiano avuto successo nel tirare per la giacchetta anche le forze tradizionali, inducendole ad appropriarsi dei loro temi anziché contrastarli. Oggi, infatti, si registra un ampissimo consenso su queste politiche di chiusura tra le forze politiche di tutti gli schieramenti. La pandemia ha fatto esplodere questa dinamica, poiché le condizioni eccezionali hanno reso temporaneamente accettabile ciò che prima molti avrebbero considerato assolutamente intollerabile; e, una volta rotto l’argine, il progressivo ripristino della normalità non è stato di per sé sufficiente a produrne un riassorbimento. Naturalmente è possibile che, col completamento del piano vaccinale e la ripresa economica, anche l’interventismo pubblico torni entro livelli fisiologici. Ma la sensazione è che, dietro la revanche statalista degli ultimi mesi, ci siano considerazioni assai più profonde rispetto alla mera esigenza di trovare una risposta pragmatica per arginare i danni economici della pandemia. Il sovranismo economico è vivo e vegeto ed è qui per restare.
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro
(riprodotto da Aspenia, n. 94, Ottobre 2021)
[1] https://populismindex.com/
[2] https://www.globaltradealert.org/reports/75
[3] Anu Bradford, The Brussels Effect. How the European Union Rules the World, Oxford University Press, 2020 (pubblicato anche in italiano, Effetto Bruxelles. Come l’Unione europea regola il mondo, Franco Angeli, 2021)