C’è una regola non scritta nella politica italiana: ogni governo interviene sul golden power ampliandone la portata. Parlando di fronte alla Camera giovedì scorso, il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, ha annunciato che “stiamo valutando la possibilità di estendere l’ambito di applicazione della normativa golden power anche a filiere che allo stato ne sono escluse e che rivestono invece un evidente rilievo nell’assetto economico nazionale”. Il riferimento sarebbe all’automotive e alla siderurgia, considerati “particolarmente bisognosi di interventi di sostegno per il loro carattere strategico e per il fatto di essere particolarmente esposti alla concorrenza cinese”. E’ trasparente il riferimento all’interesse della cinese Faw per Iveco, un’operazione su cui Giorgetti ha già manifestato perplessità invocando proprio i poteri speciali del governo per impedire l’eventuale cessione.
Ancora una volta, una modifica dell’ordinamento, apparentemente generale e astratta, sembra diretta in realtà a ottenere un risultato puntuale. Le norme introdotte da Mario Monti nel 2012, chiudendo un lungo contenzioso con l’Unione europea sulle golden share, sono state riviste per la prima volta nel 2017. Poi sono cambiate ben sei volte e, forse, ora siamo alla vigilia della settima. Anno dopo anno, il golden power è andato estendendosi fino a coinvolgere potenzialmente tutte le imprese italiane di medio-grandi dimensioni. Le ripetute riforme ne hanno mutato la natura: mentre inizialmente la disciplina riguardava i soli asset strategici nella difesa e nelle infrastrutture energetiche e di telecomunicazioni, nel tempo l’ambito d’applicazione è diventato ampissimo. Da un lato, si è passati dall’identificazione precisa degli asset a una vaga qualificazione dei settori: sicurezza e difesa; energia, trasporti e telecomunicazioni; il 5G (nel qual caso i poteri del governo si estendono addirittura alla scelta dei fornitori); e i settori “ad alta intensità tecnologica”. Si è poi estesa l’applicazione anche alle infrastrutture e alle tecnologie critiche indicate nel regolamento europeo sugli investimenti diretti e si sono aggiunti il settore finanziario, quello sanitario, la sicurezza degli approvvigionamenti, l’accesso a informazioni sensibili, compresi i dati personali, e la libertà e il pluralismo dei media. Dall’altro lato, a seguito dell’emergenza Covid sono finite nel tritacarne non solo le operazioni che coinvolgono soggetti extraeuropei, ma anche – a certe condizioni – quelle che hanno per protagoniste imprese dell’Ue. Insomma, uno strumento nato per proteggere solo alcuni precisi settori, ritenuti a priori di assoluta rilevanza strategica, si sta trasformando in un’autorizzazione a 360 gradi necessaria per ogni operazione, allungando i tempi, aggiungendo costi e generando incertezze. Quando tutto diviene strategico, nulla lo è più. E’ solo una questione di potere negoziale.
Quali effetti hanno sortito queste modifiche e, quindi, cosa dobbiamo aspettarci dagli eventuali cambiamenti futuri? Intanto, è aumentato a dismisura il numero di operazioni notificate: dalle 83 del 2019 si è balzati a 341 nel 2020 e, nei primi mesi del 2021, se ne contano già 54. La sensazione, numeri alla mano, è che dunque Palazzo Chigi abbia già molto (forse troppo) lavoro da fare nello scrutinare operazioni in gran parte innocue (nel 2020, solo il 10,8 per cento hanno indotto all’effettivo esercizio dei poteri speciali). D’altronde, lo stesso premier, Mario Draghi, nella conferenza stampa di giovedì sera ha sì condiviso la posizione di Giorgetti, ma per illustrarla ha citato un caso specifico (il niet all’acquisto di un’azienda lombarda di semiconduttori, la Lpe, da parte della Shenzen Investments). Ciò suggerisce, appunto, che gli strumenti esistenti sono già abbastanza affilati. In pratica, gran parte delle imprese che operano in settori critici o che sono alla frontiera nei rispettivi ambiti sono già interessate dal golden power: forse Giorgetti vorrebbe aggiungere anche quel po’ di manifatturiero italiano che realizza prodotti a basso valore aggiunto, ma non se ne capisce bene la ragione (se non quella di assecondare sempre e comunque al controllo della politica le operazioni di M&A). Si sa: l’appetito vien mangiando.
Anche perché, a dispetto degli auspici del ministro dello Sviluppo economico, poteri troppo vasti e indefiniti rischiano di danneggiare proprio le aziende che si vuole tutelare. L’effetto diretto del golden power è infatti di gettare un’alea su molte operazioni societarie, obbligandole ad acquisire il via libera del Governo. In generale, ciò equivale a ridurre il potenziale novero dei compratori e a rendere più costose (quanto meno per l’allungamento dei tempi) fusioni e acquisizioni. E ciò non può che tradursi in una riduzione del valore degli asset: è una sorta di patrimoniale su tutte le imprese italiane, che però non genera alcun gettito a favore dello Stato.