Chi sono i buoni e i cattivi, nelle negoziazioni fiume che – mentre scriviamo – sono ancora in corso in questa storica riunione del Consiglio europeo? E, soprattutto, ci sono buoni e cattivi? Per arrivare a un risultato, è anzitutto necessario comprendere le ragioni dello scontro, in modo che – come in ogni scambio – ciascuna delle parti possa lasciare all’altra qualcosa di suo interesse.
In questi giorni, i resoconti del Consiglio sembravano dipingere una sorta di sfida all’Ok Corral tra due fazioni. Da un lato, sembrava una battaglia all’ultimo euro tra i buoni (Italia, Spagna, Francia e altri paesi prevalentemente del sud Europa) e i cattivi (Olanda, Danimarca, Austria, Svezia e Finlandia). Dall’altro lato, la narrativa era esattamente opposta: un confronto serrato tra formiche del nord (gli Stati frugali che hanno sempre adottato sane politiche fiscali) e le cicale del sud, che vogliono continuare a spendere in deficit, senza controlli, mettendo a rischio l’intera eurozona.
L’oggetto della tenzone riguarda aspetti, estremamente tecnici, relativi al Next Generation EU, il nuovo pacchetto europeo per finanziare la ripresa negli Stati colpiti dal coronavirus, e il nuovo Quadro Finanziario Pluriennale (il bilancio per gli anni 2021-7). Più precisamente, per quanto riguardava il primo, si discute degli importi del fondo (quanto destinare a sovvenzioni e quanto a prestiti), della governance (chi decide se i Piani di spesa e di riforme strutturali presentati dagli Stati siano adeguati e i fondi debbano essere erogati), i tempi (entro quando si devono presentare i programmi e quando intervengono i pagamenti), le condizioni (se gli esborsi possano essere sospesi in caso di violazioni dello Stato di diritto). Per quanto riguarda, invece il QFP, il tema principale sono i cosiddetti rebates, ovvero i rimborsi che da molti anni alcuni Stati ottengono, riducendo in maniera cospicua la rispettiva quota di contribuzione al bilancio dell’Unione.
Il premier olandese, Mark Rutte, si è intestato la battaglia “di retroguardia”, mischiando abilmente proposte ragionevoli sul controllo dei fondi e altre chiaramente inaccettabili, come la pretesa che i piani nazionali fossero approvati all’unanimità in seno al Consiglio (dando di fatto il veto a ciascuno Stato). Di fatto, questo equivale a una manifestazione di sfiducia non tanto verso gli Stati più bisognosi di aiuti, ma verso la Commissione. Eppure, nel passato è stato più spesso il Consiglio a piegare le proprie decisioni agli equilibri politici, mentre la Commissione si è dimostrata più autonoma e consapevole del suo ruolo nell’architettura europea.
Rutte non è certamente naif e sa bene che questa volta non ha il benign neglect della Germania. Al contrario, la cancelliera Merkel è in prima linea per portare a casa il risultato, tenuto conto tra l’altro che la Germania ha la presidenza di turno del Consiglio.
Qualcuno ha affermato che le sue motivazioni sono di politica interna: tra pochi mesi ci saranno le elezioni e anche in Olanda c’è un forte partito populista, guidato dal leader xenofobo Geert Wilders che ha fatto campagna proprio su queste tematiche (abbiamo visto su tutti i giornali la sua foto con il cartello “non un centesimo all’Italia”). Vero, ma non sufficiente a spiegare l’irrigidimento di Rutte su queste posizioni, visto che il partito popolare per la libertà e democrazia gode di una ampia maggioranza relativa che non pare a rischio.
A nostro avviso, si tratta di una mera questione di soldi e potere. Innanzitutto, i frugali sono tutti contributori netti del bilancio europeo. In valore assoluto i principali finanziatori della macchina europea sono Germania, Regno Unito, Francia e Italia, ma in termini pro capite la classifica è ben diversa: la guida, guarda caso, l’Olanda con 284 euro per abitante, seguita da Danimarca, Germania, Svezia, Austria, Regno Unito e Finlandia. L’Italia arriva poco dopo con 111 euro pro capite. E’ quindi comprensibile che uno degli obiettivi negoziali di Rutte sia quello di contenere l’esborso diretto o indiretto (attraverso il debito) di nuove somme a favore del budget comune.
Ma c’è un aspetto più politico: prendendo una posizione tanto radicale, l’Olanda (assieme agli altri frugali) si è ricavata un capitale negoziale da spendere, eventualmente, su altri tavoli, a partire dal taglio dei rebates, chiesto da diversi altri Stati membri (tra cui, guarda caso, la Francia e l’Italia). Poi è verosimile che si prepari a evitare le minacciate misure, di cui si è parlato in questi giorni, volte a eliminare le disparità esistente nelle normative fiscali nazionali che, secondo altri Stati membri, falsano le condizioni di concorrenza sul mercato interno.
Va detto, però, che questo problema riguarda principalmente l’Olanda e l’Irlanda (che nel negoziato si è tenuta piuttosto defilata), oltre ai piccoli Stati come il Lussemburgo: gli altri frugali sono paesi ad alta tassazione e alta spesa (ma anche basso debito e conti in ordine).
Da ultimo, va sottolineato che in tal modo Rutte si sta ritagliando un ruolo di leadership in Europa che si pone in contrasto con il tradizionale asse franco-tedesco (in un momento in cui Merkel si avvicina alla fine del suo ultimo mandato e Macron non brilla). L’asse franco-tedesco ha sempre generato insofferenza negli altri paesi, che non di rado hanno delegato a Londra il ruolo di “grillo parlante”.
Ora che c’è la Brexit, sta emergendo una nuova geografia europea, dove la linea di frattura riguarda non solo i finanziamenti, ma anche la prospettiva entro cui essi si inseriscono. I frugali, forse, stanno semplicemente rendendo esplicito un trade off che gli altri paesi dovrebbero sciogliere: un’Europa più integrata e solidale (con stanziamenti poderosi, ma appesantiti da forti condizionalità e controlli), oppure un’Europa essenzialmente limitata al mercato interno (con pochi fondi, maledetti e subito).
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro