Caro Direttore,
la cosa più inquietante, nei pochi mesi trascorsi dalle elezioni e dall’insediamento del governo gialloverde, è forse la rassegnazione con la quale la borghesia produttiva, che ha sempre rappresentato il nerbo del paese, sembra oggi accettare, con una sorta di fatalismo, la rapida involuzione della nostra situazione economica e politica. La china sulla quale si sta scendendo è sempre più ripida eppure vi è la malcelata speranza che alla fine ce la caveremo.
I programmi elettorali di Lega e M5S, il contratto di governo, le polemiche sul piano B, gli annunci di Salvini e Di Maio, le lotte intestine culminate con l’ostentata smentita del ministro dell’economia, la sortita sul balcone di Palazzo Chigi per festeggiare il deficit al 2.4% del PIL, le spese per il reddito di cittadinanza e le modifiche della legge Fornero, ecc. Tout se tient e ha una sua logica. Non si può dire che non fossimo stati preavvertiti. Ma, come spesso avviene, molti si erano illusi che nella realtà alle parole non avrebbero fatto seguito i fatti. Di questo passo, sono altrettanto inevitabili il progressivo aumento dello spread, i saldi negativi di Target 2, il downgrading delle agenzie di rating, la reazione della Commissione. Cos’altro dobbiamo attendere? Le prossime tappe sono già segnate e non è difficile immaginarle.
A fronte di tutto ciò, in assenza di un’efficace opposizione in parlamento e nel paese, vi è il rischio che i ceti produttivi – i più danneggiati dalle scelte di politica economica del governo – finiscano un po’ alla volta per adeguarsi allo status quo. Taluni sono ontologicamente filogovernativi, altri sottovalutano il problema pensando siano solo eccessi di retorica, alcuni ragionano in termini di convenienza e altri lo fanno per conformismo (del resto, come notava Flaiano, gli italiani sono sempre pronti a correre in aiuto del vincitore).
Errori simili sono stati compiuti spesso, anche nel passato recente. Un bel libro di Vuillard (L’ordine del giorno, Premio Goncourt 2017) racconta di come i principali industriali tedeschi avessero finanziato Hitler convinti che fosse solo una fase transitoria, che tanto loro avrebbero sovvenzionato in futuro altri governi e altri partiti, come avevano sempre fatto. Lo stesso vale oggi per la leadership repubblicana moderata negli USA che pensava di poter controllare il fenomeno Trump, che poi è sfuggito loro di mano. La situazione italiana è assai diversa da entrambi i casi, ma siamo in presenza di un rischio da non sottovalutare: le politiche economiche potrebbero causare una grave crisi che potrebbe mettere in ginocchio il paese, isolandolo dai nostri partner europei, e tutto ciò potrebbe a sua volta scatenare reazioni e processi politici non più in linea con la nostra tradizione dello stato di diritto.
E allora che fare? Esiste nel paese una maggioranza silenziosa che non si riconosce nei partiti di governo, non approva i loro metodi né i contenuti delle loro politiche, ma non sa da chi farsi rappresentare né come reagire. Essi, infatti, hanno raccolto poco più della maggioranza dei votanti il 4 marzo. Raffrontando tale dato con l’intero corpo elettorale si vede che per i gialloverdi ha votato poco più di un terzo degli aventi diritto.
Occorre che questa maggioranza silenziosa si faccia sentire per far capire forte e chiaro che si oppone alle politiche che ci stanno portando fuori dall’Europa e che ci riportano indietro nel percorso di crescita difficilmente avviato in questi anni. Si può discutere di tutto (e ben vengano eventuali nuove ricette per combattere povertà e diseguaglianze), ma non si mettano a rischio i conti dello Stato, la collocazione internazionale ed europea e la moneta unica. In fin dei conti, la marcia dei quarantamila quadri e impiegati costrinse il sindacato a chiudere la vertenza con la Fiat e cessare i picchettaggi più efficacemente di quanto avevano saputo fare i partiti politici. La recente manifestazione di Torino pro TAV è un primo segno in questa direzione. Potrebbe ora far seguito un appello firmato da migliaia di imprenditori, professionisti, dirigenti, artigiani, lavoratori per far capire alla Lega che, proseguendo su questa deriva sudamericana, essa finirebbe per perdere i consensi di una parte significativa del proprio elettorato. Qualcosa comincia a muoversi, come ha ricordato Giavazzi su queste pagine: alcune voci rappresentative del mondo imprenditoriale hanno iniziato a manifestare il proprio dissenso. Occorre far capire che non è un fenomeno di vertice, è la base che è indignata e chiede di non gettare al vento i sacrifici fatti in questi anni. Solo così, forse, si potrà evitare il precipizio al quale ci stiamo pericolosamente avvicinando.
Alberto Saravalle
(Corriere della Sera 17 novembre 2018)