Le polemiche suscitate dalle anticipazioni sulla legge di bilancio ricordano la nota storiella del camionista che percorre controsenso l’autostrada. Alla moglie che lo chiama per metterlo in guardia contro un pazzo che guida nella corsia sbagliata, risponde seraficamente: “macché uno, saranno migliaia”.
Così sembrano pensare i leader della maggioranza gialloverde dinanzi alle critiche alla Nota di aggiornamento al DEF e agli avvertimenti di Fondo Monetario, BCE, Unione europea, Banca d’Italia, Ufficio parlamentare di bilancio e Corte dei conti (oltre che dei principali commentatori economici e dei giornali di mezzo mondo). Poiché è inverosimile che l’assoluta indifferenza per i principi basilari di economia e di finanza pubblica richiamati dalle predette istituzioni oltre che verso le regole su cui si basa l’Unione europea sia casuale, occorre cercare di comprenderne le ragioni profonde. Le possibili interpretazioni sono tre.
La prima, e forse la più diffusa, è che Di Maio e Salvini giochino, con estremo cinismo, una partita a breve termine, scommettendo sul risultato delle elezioni europee che si terranno nella prossima primavera. A prescindere dagli effettivi contenuti della manovra, essi infatti contano di raccogliere i frutti delle promesse effettuate, sia che riescano a mantenerle (a quale prezzo?) sia che siano state ridimensionate per colpa dei “cattivi” euroburocrati.
Al tempo stesso, conterebbero su un’affermazione sovranista a livello europeo che, pur non consentendo loro di raggiungere la maggioranza del Parlamento europeo possa comunque premere per un cambiamento delle politiche dell’Unione e magari influire sulla scelta del prossimo presidente della Commissione.
La seconda lettura – per dirla con Shakespeare – presuppone che ci sia della logica in questa follia. Si tratterebbe cioè di un espediente per creare un’escalation nella conflittualità con Bruxelles tale da portare alla fine all’uscita del nostro paese dall’Ue (e così facendo anche dalla moneta comune, poiché non sarebbe ammissibile abbandonare solo l’eurozona). Insomma, sarebbe il primo passo del fatidico Piano B.
La terza interpretazione è che il nostro governo stia giocando una partita a quella che nella teoria dei giochi si chiama “chicken run” (in italiano dovrebbe tradursi gioco del coniglio). Si pensi al film “Gioventù bruciata” con James Dean nel quale i giovani si sfidano guidando ad alta velocità le proprie auto verso uno strapiombo. Chi per primo frena perde la faccia davanti al gruppo di amici, ma se entrambi vanno fino in fondo moriranno. In altri termini, il sospetto è che la sfida alle istituzioni europee si fondi sull’assunto che l’Italia è troppo grande per fallire e che dunque a Bruxelles saranno costretti a trovare un compromesso più accomodante per evitare una deflagrazione che necessariamente non si limiterebbe al nostro paese.
Se questa è la corretta interpretazione, è bene dire subito che il calcolo sul quale si fonda è assolutamente sbagliato. Benché la Commissione abbia talora agito con discrezionalità, evitando di irrogare sanzioni a Spagna e Portogallo, si trattava di situazioni assai diverse (subito dopo lo choc di Brexit, nei confronti di Stati che avevano avviato percorsi di riforma e che comunque non rappresentavano una minaccia per la sopravvivenza stessa dell’Unione).
La conflittualità di queste settimane non lascia certo presumere che vi sarà tolleranza nei nostri confronti. Inoltre, oggi i principali Stati devono contenere i populismi e gli euroscettici locali per cui non possono lasciare impunito chi viola così apertamente le regole europee. Si ricordi la severità con cui fu trattata la Grecia di Tsipras per non aver voluto accettare il programma di riforme impostole.
Questa ipotesi, però, non esclude necessariamente le altre due. È ben possibile che, all’interno della maggioranza, si sia formata una strana coalizione tra chi vuole giocare il gioco del pollo (o del coniglio) e chi invece punta sullo strappo: pur avendo obiettivi strategici diversi – rispettivamente fare una manovra in deficit in spregio alle regole del patto di stabilità e l’abbandono dell’eurozona – essi si affidano al medesimo strumento.
Entrambi, inoltre, possono vedere nella legge di bilancio e nella sfida alle istituzioni europee il modo per consolidare il proprio consenso in vista delle elezioni (sebbene un’affermazione sovranista anche all’estero finirebbe per rendere l’Europa ancor meno disponibile a venire in nostro soccorso in nome della comune appartenenza).
Il problema che tutti sembrano sottovalutare è che la partita con Bruxelles non si gioca solo sul terreno delle negoziazioni politiche, ma soprattutto sui mercati. A fine mese le agenzie di rating S&P e Moody’s esprimeranno il giudizio sulle prospettive del nostro paese. Siamo due gradini sopra la soglia del non-investment grade.
Gli investitori, come dimostrato dai recenti valori dello spread, danno già per scontato il declassamento di un gradino e si interrogano solo se oltre a ciò ci sarà anche un “negative outlook” che faccia presupporre un ulteriore downgrading a breve. Il rischio è che, prima ancora della BCE, a molti investitori istituzionali, per le regole interne sui rischi che possono assumere, sia precluso l’acquisto dei nostri titoli di stato con le conseguenze che si possono immaginare. Questa sarebbe la vera Caporetto per l’Italia che il Governo sovranista sembra ignorare.
Il paradosso è che, mentre Di Maio e Salvini gridano al complotto dei mercati e delle élite plutogiudomassoniche europee, si apprestano ad approvare una legge di bilancio che – attraverso un deficit significativamente maggiore rispetto ai nostri obblighi – implica proprio la necessità per il nostro paese di dipendere più, e non meno, dai mercati stessi o dalla benevolenza delle istituzioni europee attraverso il ricorso alle outright monetary transactions che però presuppongono lo Stato sia in regola con l’Europa. Mala tempora currunt.
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro