“Tutte le decisioni definitive sono prese in uno stato d’animo che non è destinato a durare”, diceva con la consueta acutezza Proust. È quanto sta accadendo in queste ore nel Regno Unito: quello che sembrava un trend crescente a favore della fuoriuscita dall’Unione, sembra essersi arrestato per effetto dell’ondata emotiva suscitata dall’assassinio di Jo Cox. Speriamo che i dati che parlano di un’inversione di tendenza siano veritieri. È, comunque, paradossale che una decisione così importante – non solo per il Regno Unito, ma per l’intera Europa – sia presa sulla scorta di fattori emotivi.
Quale che sia l’esito, resta valido il tagliente giudizio politico su Cameron, espresso nei giorni scorsi dal Senatore Monti: il Regno Unito è stato chiamato al voto con grande avventatezza. Il premier britannico, per un errato calcolo politico, ha fortemente voluto il referendum, sottovalutando le resistenze all’interno del proprio partito e il sentiment del paese. Ma d’altro lato, aggiungiamo noi, anche il fronte del leave – oltre ad avere fomentato timori e malesseri nell’elettorato, spesso sulla scorta di dati inesatti sull’immigrazione – ha affrontato con estrema leggerezza il referendum, senza fornire precise indicazioni su come mantenere i benefici derivanti dall’accesso al mercato interno anche dopo l’eventuale fuoriuscita dall’Ue.
Che cosa accadrà dunque se prevarrà il leave? Innanzitutto, occorre chiarire che il referendum non ha effetto diretto, ma semplicemente valenza politica. La procedura per il recesso prevista dall’ art. 50 del Trattato sull’Unione europea, infatti, prende avvio con la comunicazione dell’intenzione di recedere al Consiglio europeo che dovrà, a sua volta, stabilire degli orientamenti generali. Su queste basi inizierà dunque il negoziato per definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione.
Con la comunicazione, però, si avvia il cronometro: se entro due anni non verrà concluso un accordo o concessa una proroga, i Trattati cesseranno di applicarsi nei confronti del Regno Unito. Quindi, per la tempistica dell’uscita dall’Unione, conta la data in cui il governo britannico effettua la comunicazione ufficiale. Considerata la complessità delle questioni aperte, è verosimile che due anni siano insufficienti. Occorre rivedere tutto il corpus normativo. Per esempio: le direttive restano in vigore perché recepite con leggi nazionali (ma in alcuni casi non avrebbero molto senso perché il loro presupposto era l’appartenenza all’Unione), i regolamenti cesseranno di avere efficacia e occorre valutare gli effetti di tale vuoto legislativo. Con l’adesione alla Cee nel 1973, il Regno Unito ha adottato circa 5000 normative (tutto l’acquis), che succede di questa legislazione? Infine, il Regno Unito è vincolato da convenzioni con Stati terzi concluse dall’Unione che verrebbero meno (es. in materia commerciale) e che dovrebbero essere sostituite.
Cameron ha dichiarato – speriamo sia solo terrorismo elettorale – che, qualora prevalga il leave, comunicherà immediatamente l’intenzione del Regno Unito di recedere, facendo scattare il termine. Il buon senso, per contro, imporrebbe di attendere a formalizzare la decisione, impostando preliminarmente il negoziato. Nei giorni scorsi il Comitato per il leave ha, infatti, diramato un comunicato nel quale chiede che la formale comunicazione venga preceduta da trattative tra Regno Unito e Unione Europea con l’obiettivo di arrivare all’uscita nel 2020.
La situazione può ulteriormente complicarsi per le ripercussioni politiche dell’esito del referendum. È verosimile che, se perde, Cameron si dimetta (o ne vengano chieste le dimissioni) e venga a crearsi un vuoto di potere nel partito conservatore proprio quando occorrerebbe una forte guida per condurre i negoziati. Il voto per scegliere il suo successore – Gove o Johnson – non sarà prima dell’autunno. In secondo luogo, oggi vi è un’ampia maggioranza parlamentare contraria alla Brexit e dunque, è possibile che inizi una sorta di guerriglia parlamentare per ritardare il recesso e condizionare il negoziato. L’obiettivo potrebbe essere quello di far svolgere un secondo referendum sperando che possa ribaltare il risultato, come è avvenuto in Irlanda per la ratifica del Trattato di Lisbona.
Ciò che preoccupa, però, non è tanto la procedura di “divorzio”: alla fine un accordo si troverà. È piuttosto l’assenza apparente di un piano B condiviso dai fautori della Brexit. Consumato lo strappo, quale modello di cooperazione commerciale tra il Regno Unito e l’Unione per preservare, per quanto possibile, il regime di libera circolazione di merci e servizi? (per i capitali permarrebbe sostanzialmente invariato il regime attuale, mentre per le persone non si sa cosa voglia l’Uk).
Gli esempi non mancano, ma nella campagna elettorale non abbiamo sentito univoche indicazioni e molte affermazioni appaiono velleitarie. Per esempio, il fronte del leave ha ipotizzato la conclusione di accordi di libero scambio con i principali paesi (come oggi tra Ue e Canada), ignorando che gli Usa hanno già detto di non essere interessati e sottovalutando le lungaggini dei relativi negoziati (si pensi alle difficoltà della trattativa in corso per il Ttip). Un’alternativa potrebbe essere l’adesione allo Spazio Economico Europeo (come per la Norvegia), che comprende, oltre agli Stati dell’Ue quelli dell’Efta. Vi è tuttavia da chiedersi se sia una soluzione politicamente percorribile, posto che il Regno Unito dovrebbe conformarsi a larga parte della normativa Ue, senza poter esercitare alcuna influenza al momento della sua elaborazione. Per non dire che ciò comporterebbe anche un rilevante esborso finanziario. L’altra possibilità – l’adesione all’Efta, come la Svizzera – è una strada in salita perché presuppone la conclusione di numerosi accordi bilaterali ad hoc e il loro continuo aggiornamento. Anche in questo caso, poi, il Regno Unito dovrebbe conformarsi alle regole Ue senza poterle influenzare. Meno appetibili sembrano il modello turco – ovvero una semplice unione doganale, che consentirebbe solo la libera circolazione delle merci – e la scelta di restare “single” avvalendosi solo delle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
In conclusione, le soluzioni ipotizzabili sono molteplici, con diversi gradi d’integrazione e di complessità. Quale sia la scelta, per mantenere l’accesso al mercato interno (dove finisce tra il 40 e il 50% delle esportazioni britanniche), il Regno Unito dovrà comunque continuare a conformarsi in buona parte agli standard europei. È pertanto verosimile che, alla fine di questo lungo e tortuoso processo, il quadro normativo non sia così diverso da quello attuale. Ma i tempi lunghi e i rischi potrebbero indurre agli operatori, nel frattempo, a spostarsi in altri paesi, con tutte le ovvie ricadute su occupazione, Pil, ecc.. In altri termini, è ben possibile che alla fine l’operazione – troppo avventatamente affrontata da entrambi gli schieramenti – nonostante tutto vada bene, ma nel frattempo il paziente sia morto.
Alberto Saravalle