Per certi versi il 2014 è stato un annus horribilis per l’Ue. Le elezioni dell’Europarlamento hanno, infatti, dato voce ai partiti antieuropeisti in ogni paese. Si è così scatenata una campagna elettorale che ha trovato terreno fertile in un’Europa sfiancata da sette anni di crisi – durante i quali ben cinque paesi hanno affrontato crisi del debito sovrano (Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo, Cipro) oltre all’Italia che ne è stata lambita – con un nazionalismo (economico e politico che talora trascende nel razzismo) in crescita. Se a ciò si aggiunge la polemica sempre più forte tra fautori dell’austerity e sostenitori della crescita, spesso trasformatasi in contrapposizione tra paesi e talvolta addirittura personalizzata con invettive ai leader, c’era da preoccuparsi seriamente sul futuro dell’Unione.
Eppure, nel momento forse più difficile della sua storia, l’Unione europea sembra ritrovare un senso di unità che restituisce pienezza alla sua missione. Lo si evince anzitutto dalle fredde statistiche sull’attività della Corte di Giustizia: a quanto si apprende, infatti, uno dei dati più significativi (che saranno poi oggetto di analisi approfondita nella relazione annuale) è il crollo dei procedimenti relativi a problemi di interpretazione della legge sollevati al livello degli Stati membri.
Questo è un fatto molto incoraggiante. Anche se gli Stati membri sono tenuti al rispetto del diritto dell’Unione, sappiamo bene che molto spesso i governi hanno cercato di eludere le norme europee o le hanno recepite in modo inadeguato, parziale o addirittura contraddittorio, per perseguire finalità forse rilevanti ai fini nazionali, ma incompatibili col disegno comune. I dati forniti dalla Corte inducono a ritenere che questo atteggiamento vada gradualmente sfumando e che quindi le regole stiano davvero convergendo per dar luogo a una koinè europea del diritto. Il che implica una riduzione dei costi di transazione e una più facile conoscibilità del diritto anche per gli operatori stranieri. In sostanza, gli investimenti cross border diventano effettivamente più facili, e i “diritti” e i “doveri” degli europei sono sempre meno dipendenti dal luogo in cui si trovano.
Questa inedita immagine arriva assieme a una serie di altre novità nel panorama istituzionale e politico dell’Ue. L’insediamento della nuova Commissione ha visto partire il piano Juncker di co-investimenti che, a onta di tutte le critiche, può comunque contribuire a rimettere in movimento le economie dei paesi europei stagnanti, soprattutto se riuscirà a orientare risorse su quelle opere cross border che servono a scardinare la dimensione nazionale dei mercati. La Banca Centrale Europea ha avviato il tanto atteso piano di Quantitative Easing che ha comportato un repentino calo dell’Euro e sta cominciando a dare i propri frutti in termini di maggiori esportazioni.
Non solo. Dal punto di vista dell’integrazione effettiva, sono stati fatti importanti passi avanti sul fronte, per esempio, dell’Unione bancaria e dell’Unione dell’energia. Sul primo versante, la realizzazione della Asset Quality Review – che, nel nostro paese, ha portato alla bocciatura di nove banche, tra cui Mps e Carige oltre a diverse popolari (un giudizio che rafforza la scelta del governo di superare il voto capitario in queste ultime). Inoltre, la vigilanza bancaria è in via di progressiva unificazione sotto la regia della Banca centrale europea (Single Supervisory Mechanism), mentre il Single Resolution Mechanism poggia ormai su una decisione già assunta dal Consiglio. Per quanto attiene l’Unione dell’energia, il processo è ancora alle prime fasi, ma non si può non salutare con favore l’enfasi posta sull’integrazione dei mercati e la stretta sugli aiuti di Stato (coerente con le nuove linee guida), così come la scelta della Commissione di rilanciare il target europeo sul livello minimo di interconnessioni.
Nel complesso, dunque, l’Ue sta davvero diventando nella realtà quello che è (o era) nella percezione. E questo lo si deve in parte alla maggiore attenzione all’attuazione delle norme (piuttosto che alla mera enunciazione di principi tanto altisonanti quanto disattesi), in parte all’abile esercizio di quello che gli studiosi di relazioni internazionali chiamerebbero soft power. Pensiamo, per esempio, agli scoreboard che la Commissione sta pubblicando su molteplici temi, quali la giustizia e l’agenda digitale: anche senza costringere gli Stati membri a prendere misure specifiche, l’introduzione di criteri di valutazione e la redazione di classifiche è un metodo di persuasione assai efficace. A nessuno, infatti, piace essere “l’ultimo della classe”, e questo determina una forte spinta a “fare le cose”.
Il vero rischio, a questo punto, è quello di non riuscire a portare avanti tutti i dossier aperti. Da un lato, non bisogna minimizzare i risultati raggiunti: pur non corrispondendo alle aspettative iniziali, non si può negare che l’Europa ha una costituzione formale e materiale assai più robusta che in passato. Dall’altro lato occorre una sana dose di realismo. Fughe in avanti, come quella che nei giorni scorsi ha portato Juncker a parlare della creazione di un esercito europeo, rischiano di essere solo un modo per gettare la palla in tribuna.
La cattiva notizia, insomma, è che molte cose in Europa hanno funzionato in modo insoddisfacente, o si sono messe in moto troppo tardi. La buona notizia, però, per citare Daniel Kelemen, professore di politica dell’Unione europea alla Rutgers University e autore con Matthias Matthijs della Johns Hopkins University, di un influente articolo su Foreign Affairs significativamente intitolato “Europe reborn”, nonché di un’approfondita intervista col direttore della medesima rivista: “Sono ottimista. E, in parte, sono ottimista in virtù delle lezioni che vengono dalla stessa storia dell’Ue, abbiamo visto che ogni volta che i nodi venivano al pettine, i leader europei hanno sistematicamente scelto una più profonda integrazione, anziché la disintegrazione”. Alla fine, succederà anche per i negoziati con la Grecia per la permanenza nell’eurozona.
L’Europa non sarà una d’arme, di lingua, d’altare, di memoria, di sangue, di cor, ma quello è un modo ottocentesco di vedere le cose: l’Europa è sempre più unita e interdipendente nelle sue infrastrutture fondanti, materiali e immateriali, e questo è quello che realmente conta. Insomma, checché se ne dica, l’Europa c’è.
Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle