Mentre il dibattito interno di queste settimane è concentrato prevalentemente su temi di politique politicienne, quando si parla di politica economica (legge di stabilità, Jobs act, ecc) ci si continua a domandare se le medicine somministrate dal governo Renzi siano placebi, aspirine o potenti antibiotici. In altri termini, riusciranno far riprendere nel 2015 quello che, da anni, viene etichettato come il malato d’Europa? Ci siamo ormai abituati a sentir ripetere che i problemi dell’Italia sono interamente dovuti alle mancate riforme di questi ultimi anni e che pertanto dobbiamo prima di tutto fare i compiti a casa nostra. Il che è indubbiamente vero, ma rappresenta solo una parte della verità. Se l’Europa (che è il nostro mercato primario nel quale esportiamo gran parte delle nostre merci) non funziona o – peggio ancora – ci impone politiche che rendono più difficile uscire dalla recessione senza fine in cui ci stiamo avvitando, a poco possono servire i nostri sforzi. È l’Europa – per restare in metafora – che sembra sempre più un malato cronico, addirittura rassegnato a non poter guarire (almeno nel breve termine).
Tralasciando i problemi dell’Eurozona, sotto gli occhi di tutti, anche le altre politiche sembrano progredire a passi molto piccoli. I negoziati per il Trattato transatlantico per gli investimenti e il commercio (Ttip) sono arenati tra veti reciproci dei vari paesi. I bisticci infra-europei superano, per rumore, gli stessi disaccordi tra l’Ue e gli Usa. Il piano di investimenti per 300 miliardi di cui si è andato fantasticando, a ben vedere è un pannicello caldo perché l’importo è comunque limitato se rapportato alle esigenze dell’Europa nel suo complesso, i fondi veramente messi a disposizione, per lo più sottratti ad altri investimenti già previsti in precedenza, sono pochi (per il resto si fa affidamento su fondi privati in un rapporto da 1 a 15), e si temono difficoltà per la selezione degli investimenti da parte della commissione tecnica incaricata. Paradossalmente, il piano Juncker rischia di scontentare tutti: i “mercatisti” perché stabilisce comunque un vistoso precedente, e i “dirigisti” perché l’impegno è quasi simbolico. Il meccanismo per la gestione in comune delle crisi creditizie prevede la creazione di un fondo alimentato dalle banche che nell’arco di dieci anni dovrebbe raccogliere 55 miliardi di euro, del tutto insufficienti in caso di bisogno. E la lista potrebbe continuare.
Le cause di questo protratto malessere sono molteplici, ma certamente pesa molto la mancanza di un’effettiva leadership a livello delle istituzioni che offra una visione condivisa del futuro. La Commissione, che pure dopo il Trattato di Lisbona, dovrebbe avere maggiore autonomia, godendo di una certa legittimazione popolare, in realtà sembra troppo condizionata dalla Germania che si pone sempre più come l'”azionista di maggioranza” relativa, mentre gli altri Stati membri non riescono a esprimere una linea alternativa coerente, credibile e non opportunista. Per la verità, l’Europa comunitaria dei primi decenni, guidata dalle istituzioni (sotto la benevola vigilanza franco-tedesca), ha lasciato da almeno un decennio il passo a un modello di Unione in cui sono sempre più gli Stati a condurre il gioco. Ma finché vigeva l’asse franco-tedesco, il potere in Europa era condiviso e vi era più spazio per mediazioni con gli altri Stati. Oggi non è più così e ciascuno gioca una partita per conto suo nella quale, ovviamente, peso specifico e alleanze contano. Così, la Francia è sempre più costretta ad assecondare le scelte tedesche per ottenerne in cambio benevolenza per le proprie infrazioni alla politica fiscale. Da ultimo, per esempio, ha appoggiato la posizione tedesca, nettamente contraria all’adozione di un meccanismo di soluzione delle controversie tra Stati e investitori nell’ambito del Ttip, che sta bloccando i negoziati con gli Stati Uniti. Il Regno Unito si trova nell’angolo e alterna legittime richieste di cambiamento dell’agenda dell’Ue a improbabili tentativi di modificare le regole comuni sull’immigrazione per contrastare l’ascesa di Ukip o le contestazioni dei più euroscettici all’interno del proprio partito. E l’Italia cerca di porsi alla guida di una coalizione favorevole a politiche più espansive che in realtà non c’è.
Già dagli anni ’70 – nel famoso rapporto Tindemans – si è iniziato a parlare di Europa a due velocità: un processo di integrazione più avanzata tra taluni Stati, in attesa che i tempi siano maturi per l’adesione degli altri. Così è stato per Schengen, per il Protocollo sulla politica sociale (cui inizialmente il Regno Unito non aderì), per l’euro e molte altre questioni. Il metodo è stato recepito formalmente nel Trattato di Amsterdam che per la prima volta ha consentito, in presenza di determinate condizioni e garanzie, forme di cooperazione rafforzata limitate a taluni Stati. Oggi, però, quando si parla di Europa a più velocità, non si pensa più a un gruppo virtuoso di Stati che coopera più strettamente degli altri, ma ad alcuni Stati più forti o più furbi che “se la cavano” evitando il rispetto delle regole. È quanto è accaduto inizialmente per Francia e Germania che nel 2003 non rispettarono il patto di stabilità e ora si sta verificando qualcosa di analogo per la Francia e forse per l’Italia.
Come se ne esce? Con nuove regole sulla governance europea – non solo per l’Eurozona – che agevolino il processo decisionale. Accettando, in altre parole, che vi sia un’Europa à la carte, fermi ovviamente certi principi inderogabili. Già è prevista – come si è detto – la possibilità di cooperazioni rafforzate che consentono forme più avanzate d’integrazione. Si tratterebbe di estendere e semplificare il meccanismo. Così come si potrebbe consentire con maggior facilità agli Stati dissenzienti di chiamarsi fuori, anche temporaneamente (cosiddette clausole di “opt out”) senza arrestare il processo deliberativo. Si potrebbero così formare “maggioranze variabili” a seconda delle problematiche, senza poteri di veto dei soliti paesi. Ciò dovrebbe permettere di creare dei modelli virtuosi, evitando che il processo di legislazione europea si riduca sempre in una negoziazione al ribasso.
L’Europa è gravemente malata e serve una cura radicale per rimetterla in sesto. Il problema è che non tutti ne sono ancora convinti. Gramsci diceva che la prova migliore del fatto che si è stati veramente ammalati è quella di morire: ciò soddisfa tutte le esigenze scientifiche e amministrative. Speriamo che ci sia risparmiata questa dimostrazione.
Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro