Riformare la Pubblica Amministrazione è certamente un vaste programme, come direbbe De Gaulle. Da noi se ne parla sempre più spesso con rassegnazione, come si trattasse di unamission impossible. A volte si offrono perfino improbabili giustificazioni antropologiche sulle irriformabili abitudini degli italiani, a confronto con i nostri vicini che – beati loro – vantano scuole di formazione d’eccellenza per i grand commis. Dal momento che si ritiene di non poter intervenire per rendere più efficace e trasparente la sua azione, tutt’al più ci si limita a cercare di ridurre i compensi dei più alti funzionari. A ben vedere, questa inefficienza ha non solo gravi impatti sulla nostra economia, limitandone la crescita, ma anche effetti distorsivi nel rapporto della PA con i cittadini. E il rimedio, rischia di essere peggio del male.
Quali effetti produce l’inefficacia della PA? Innanzitutto, essa si traduce in lungaggini burocratiche quali quelle che, per esempio, caratterizzano i percorsi autorizzativi per le grandi opere. Una buona fotografia del problema arriva dal rapporto “Doing Business“: ottenere i permessi edilizi per un piccolo investimento in Italia richiede 233,5 giorni contro una media Ocse di 147,1, a un costo pari al 186,4% del reddito pro capite, contro una media Ocse dell’84,1%. Più grande è l’opera, più le cose si complicano: cresce, infatti, il numero dei soggetti coinvolti e si moltiplicano i poteri di veto. Ciò, da un lato, consente più facilmente a chi ne abbia interesse pour cause di bloccare i lavori, dall’altro lato, suscita un (ir)ragionevole sospetto nei cittadini che effettivamente il ritardo nel completamento dell’iter autorizzativo sia dovuto a chissà quali problemi sottostanti, tenuti nascosti alla popolazione interessata dall’opera. Più in generale, il ruolo “frenante” della burocrazia rispetto alle dinamiche della produttività totale dei fattori nel nostro paese è ormai chiaramente individuato come “il” problema italiano: lo sottolinea, buon ultimo, il rapporto della Commissione europea sull’andamento delle economie dell’eurozona.
In secondo luogo, le procedure autorizzative, troppo spesso opache, creano spazio per fenomeni poco chiari, alimentando la percezione di una corruzione pervasiva. Anche il funzionario onesto in questo contesto è così indotto a non assumersi responsabilità che potrebbero tradursi in sanzioni o addirittura azioni della Corte dei Conti per danno erariale. Meglio dunque bloccare l’opera, lasciando l’ultima parola alla magistratura al termine di un lunghissimo contenzioso amministrativo che ovviamente fa lievitare i costi (diretti) per le imprese e (indiretti) per la stessa amministrazione.
Infine, gli scandali politici, dalle spese pazze in poi, hanno fatto il resto, delegittimando Stato ed enti pubblici e alimentando l’attuale clima di antipolitica. Tutto ciò, alla fine si traduce in una pesante sfiducia aprioristica dei cittadini verso le amministrazioni che legittima qualsiasi opposizione alle decisioni assunte. Da noi il fatto che un’opera debba superare un oneroso percorso autorizzativo prima di essere realizzata non sembra sufficiente a fornire, se non il consenso, neppure la sufficiente accettazione sociale. Da ciò nascono proteste che non di rado sconfinano nella guerriglia e prese di posizione che, se altrove sarebbero giudicate eccentriche e irrilevanti, in Italia diventano invece espressione di un sentire più comune di quanto ci piacerebbe credere.
Si prenda il caso della costruzione di una grande infrastruttura. Gli impatti ambientali sono molteplici e complessi. Il cittadino ovviamente non è in grado di farsi un’idea precisa al riguardo. Per questo è costretto a fidarsi dell’amministrazione che dovrebbe applicare la normativa di settore, contemperando la tutela dei suoi diritti (salute, sicurezza, ecc.) con quelli economici delle imprese che desiderano investire. Ciò è indispensabile per ridurre i costi di transazione: se, per costruire la Tav, le Ferrovie dovessero negoziare con ogni singolo cittadino coinvolto e acquisirne il consenso esplicito, nessuna opera vedrebbe mai la luce perché i costi di realizzazione sarebbero eccessivi.
È naturale che costruzioni talora invasive come centrali elettriche, reti ferroviarie, termovalorizzatori, ecc. suscitino approvazioni e scontenti, aspettative e mugugni, nelle comunità locali. L’acronimo Nimby (“not in my backyard” ovvero “non nel giardino retrostante la mia casa”) sta proprio a indicare questo atteggiamento di opposizione a ciò che tocca gli interessi personali di una particolare categoria o comunità. Ma all’estero ciò raramente trascende in una sorta di guerra ideologica nel nome della quale ogni mezzo (anche violento, come nel caso della Tav) sembra ammissibile. Chi, come lo scrittore Erri De Luca si è dichiarato pronto ad andare in galera se condannato per i suoi incitamenti a sabotare la Tav, viene marginalizzato, prima ancora (e forse senza bisogno) dell’intervento della magistratura.
La stessa battaglia per la riduzione degli stipendi pubblici, se da un lato è indice di una diffusa richiesta di sobrietà a fronte di compensi talvolta ingiustificatamente alti, è anche figlia di questa sfiducia. Se ti reputo inaffidabile, ti pagherò quel che meriti, cioè poco. Il paradosso però è che questa rischia di diventare una profezia che si auto avvera. Per tutte queste ragioni, è pertanto fondamentale ricostituire un clima di fiducia nell’amministrazione, nelle sue decisioni e nelle procedure sottostanti. Il tema degli stipendi ne è la conseguenza, ed è sbagliato concentrarsi solo su quelli. Bisogna partire dalle fondamenta: per restituire autorevolezza all’amministrazione bisogna disegnare procedure più snelle e più trasparenti e rendere visibili le responsabilità dei singoli uffici. Ma la trasparenza è troppo spesso solo uno slogan dietro il quale si nasconde il nulla.
Come nel caso della semplificazione, non è possibile garantire trasparenza con un mero atto di legge: serve piuttosto una pesante e onnicomprensiva ristrutturazione dei procedimenti, che inevitabilmente anche in questo caso vede nella digitalizzazione della PA il suo perno fondamentale.
Se Renzi riuscirà a ottenere questo risultato, la sua sarà stata una gloriosa rivoluzione anche culturale. Se tutto si risolverà nel mero taglio degli stipendi pubblici, quel che resterà sarà solo l’ennesima manovra di pura ragioneria.
Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle